Guglielmo Epifani, il socialista che sapeva parlare ai comunisti

Con gradualità ma anche con una certa maestria tattica Epifani ha gestito per otto anni a partire dal 2002 un sindacato ritornato a fare il sindacato, consapevole che il suo curriculum di socialista mai pentito avrebbe suscitato a corso Italia anche parecchi pregiudizi. E così stupì tutti quando nel 2003, sterzò a sinistra, schierando la Cgil a favore del sì al referendum sull’articolo 18, mentre il suo predecessore, che solo l’anno prima aveva guidato l’opposizione sociale al governo Berlusconi, dichiarò che si sarebbe astenuto. L’unità del sindacato è sempre la stata la sua bussola: il moderato, mediatore a oltranza ha sempre evitato lo strappo con Fiom radicale movimentista di Gianni Rinaldini e Maurizio Landini. E, termine di una estenuante trattativa col governo Prodi sul Protocollo del welfare, di quelle a un certo un punto “portate i panini che si va avanti a oltranza”, come segno di distinguo non firmò l’accordo raggiunto ma lo siglò “per presa d’atto”. Ricordano i cronisti quando in quei giorni a un certo punto si chiuse per qualche ora da solo nella sua stanza, per ritrovare un equilibrio tra nervi e stanchezza montante.

Sono gli anni complicati dell’opposizione a Berlusconi, che segnano il momento più basso nelle relazioni tra i sindacati. La Cgil contro Cisl a Uil, “unici sindacati in Europa a non essersi mobilitati contro la crisi”. La Cisl contro la Cgil “buona solo a fare le parate”. C’è chi lo chiama isolamento, ma in verità è coerenza, perché la Cgil resta severa anche con Monti quando mette mano allo Statuto dei lavori e poi col jobs act di Renzi affettuosamente ricambiato come “quelli che mettono i gettoni nell’I-Phone”. In quel periodo Epifani, che aveva traghettato il Pd al congresso, è già in Parlamento, fortemente voluto da Bersani. Quando il gioco si faceva duro, toccava a lui, ricordano i suoi compagni. Era toccato a lui presentare la candidatura di Franco Marini al Colle, da sindacalista a sindacalista, riconoscendo le differenze di sensibilità ma anche l’afflato di una prospettiva comune. Ed era toccato a lui, nell’assemblea al Parco dei Principi, pronunciare il discorso della scissione della sinistra del partito, che avrebbe dato vita ad Articolo 1: “Per stare in un partito ci vuole rispetto”. Fu un discorso intransigente, col tono di voce pacato. I riformisti veri sono così: duri, ma senza perdere la tenerezza. 

L’HUFFPOST

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