L’egemonia culturale del grillismo

Molti anni fa, nei mesi successivi alla fine dell’Unione sovietica e del comunismo in est Europa, Ernesto Galli della Loggia scrisse sul Corriere della Sera un editoriale imprevedibile e impeccabile. Il comunismo, nell’accezione gramsciana dell’egemonia culturale, in Italia aveva comunque vinto. Gli uomini del Pci erano ai livelli sommi delle case editrici, dei giornali, del cinema, della letteratura, dell’università, della magistratura, la loro spuria visione del mondo era sopravvissuta alla catastrofe di Mosca e avrebbe continuato a imporsi sul dibattito pubblico. Quanto fosse lungimirante Della Loggia, lo si vide di lì a poco: con Tangentopoli il Partito socialista, che ci aveva visto giusto ed era dalla parte giusta della storia, fu spazzato via e il Partito comunista (ora declinato come democratico della sinistra), rimasto disastrosamente impigliato nelle sue muffite chimere, si issò sul piedistallo della sinistra onesta e dunque legittima.

Il suo problema è che non aveva più niente da dire, aveva soltanto da esibire mani ripulite e da rimasticare la lezione modernizzatrice di Craxi, in particolare di un capitalismo temperato dalla mano dello stato liberale, senza però dichiararlo, senza averlo compreso fino in fondo, senza averlo amato, se non in qualche declinazione di esercizio del potere e di ambizione politico-manageriale. E infatti arrivò Silvio Berlusconi e vinse. Oggi, visto a tre decenni di distanza, fu l’esordio di Forza Italia a incardinare una specie di egemonia culturale, non trionfante ma nemmeno marginale. Qualcuno ricorderà la videocassetta spedita da Berlusconi ai tg per annunciare la “discesa in campo”, e l’orrore suscitato dal mezzo, o dal mezzuccio: il video di un monologo ontologicamente indisposto al confronto. Ma era soltanto l’intuizione della diretta Facebook: adesso ogni leader ha la sua videocassetta da inviare al suo profilo social per il messaggio magari non alla nazione, ma perlomeno ai follower, e quando rimbalza sui tg tanto di guadagnato. I sondaggi, il marketing, gli slogan, i nomi post-ideologici dei partiti: tutto l’armamentario culturale di Berlusconi è diventato patrimonio della politica italiana. Il bello è che lo è compiutamente ora, a berlusconismo tramontante.

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