Dov’è finita la civiltà del lavoro Dov’è finita la civiltà del lavoro

MASSIMO GIANNINI


È stata la settimana del lavoro. Dieci morti in sette giorni: una contabilità insopportabile, per la seconda manifattura d’Europa e la sesta democrazia d’Occidente. L’ultimo ieri mattina: Marco Oldrati, muratore di 52 anni, precipitato da un ponteggio in un cantiere di Tradate. Evochiamo ogni volta la solita, infinita Spoon River. E ogni volta è la solita, straziante sequela. Luana aveva 22 anni e la sua vita, per 1.400 euro al mese, se l’è risucchiata l’orditoio di un’azienda di filati a Montemurlo. Samuel ne aveva 20 e la sua, per meno di 1.000 euro in nero, l’ha inghiottita il magma incandescente di cemento e mattoni di un laboratorio di cannabis light di Gubbio. Ma poi ci sono tutti gli altri. Da Sabri Jaballah, che di anni ne aveva 23, straziato dagli ingranaggi di un apriballe alla “Millefili” di Montale. A Andrea Recchia, che a 37 anni è scomparso sotto quattordici tonnellate di mangime per animali in uno stabilimento a Chiozzola di Sorbolo. Sono i ragazzi perduti di questa immane tragedia che bussa alle nostre coscienze distratte, pronte a sfornare prime pagine una tantum, e poi amen. A quei ragazzi non abbiamo rubato solo il diritto di sperare: gli abbiamo negato il diritto di esistere.

Il Primo Maggio, già “contaminato” dall’orazione civile di Fedez contro gli omofobi oscurantisti in camicia verde, è un ricordo sbiadito. La “Festa del lavoro” è diventata un monumento ai caduti. In senso simbolico: il lavoro non c’è per almeno due milioni e mezzo di italiani e 13 milioni e mezzo di inattivi, e dall’autunno sarà a rischio per un altro milione e mezzo di persone. Ma anche in senso fisico: il lavoro che c’è non è più il “luogo” della dignità e dell’emancipazione dal bisogno, che attraverso i diritti trasforma gli individui sperduti del mondo nei cittadini consapevoli della Polis. C’è il lavoro che stanca: e questo, sperimentato sulle biciclette dei rider di Glovo o sui muletti degli spedizionieri di Amazon, lo sapevamo prima ancora di Cesare Pavese. Ma c’è il lavoro che uccide: e questo, all’alba radiosa del Terzo Millennio, non lo possiamo più accettare. La modernità ci assedia, ci insegue, ci sfida: non c’è limite. La Tecnica detta i suoi tempi e le sue leggi: non c’è regola. Tutto cambia, e il virus accelera i mutamenti. Non è solo lo smartworking, che resterà anche dopo il Covid. È un nuovo modo di produrre, di consumare, di vivere. E dunque di concepire il tempo e lo spazio del lavoro. Leggo sul New York Times che a Mountain View il nuovo Leviatano guidato da Sundar Pichai, Google, sta di nuovo rivoluzionando i suoi uffici con la filosofia del “Post-Pandemic Workplace”: un insieme di micro-postazioni modulari e “mutanti”, che si scompongono e ricompongono secondo le esigenze del momento in un ambiente open concepito a metà “tra Lego ed Ikea”. Detta così pare bella. Poi però ripenso di nuovo a Luana, e a come sia possibile che qui da noi, a un oceano di distanza dalla mitica Silicon Valley, una ragazza possa morire mangiata viva da una macchina. Come se non fossimo in un noto distretto tessile del 2021, ma in una vetusta filanda clandestina del 1800.

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.