Davigo e Ardita, le toghe rotte

Gian Carlo Caselli

Un buon incipit potrebbe essere – parafrasando Gadda – “Quer pasticciaccio brutto der CSM”. Ma c’è poco da scherzare con la bufera abbattutasi sul Consiglio superiore della magistratura, sulla ANM e sulla Magistratura tutta, con l’uno-due da KO dei casi Palamara-Amara. Il labirinto alimentato da corvi, faccendieri e “postini” che collega i due casi, investendo il CSM e quattro Procure della Repubblica (Milano, Roma, Perugia e Brescia) è molto insidioso, per alcuni profili torbido e inquietante. Personalmente mi preoccupa anche la querelle insorta fra Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, rispettivamente ex componente l’uno e tuttora membro del CSM l’altro. Dico subito che stimo e sono amico di tutti e due. Di Ardita ho recentemente recensito per Huffington Post il suo ”Cosa nostra S.p.a.”. Un ottimo libro, che racconta la mafia attraverso le esperienze sul campo dell’autore, di cui rivela l’indubbio spessore umano e professionale. Davigo lo apprezzo per le sue prese di posizione sui problemi della giustizia, sempre esposte con linguaggio non felpato e spesso urticante, perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ma su Davigo politici e avvocati hanno spesso scaricato accuse spropositate e grevi, tipo: “la sua non è civiltà; fa paura; butta a mare secoli di cultura giuridica; è l’anticamera della giustizia del popolo o fai da te; è la conferma dell’impazzimento giustizialista”. Tanto livore perché Davigo è il simbolo di Mani Pulite, un’icona della magistratura, per la capacità dimostrata di applicare la legge in maniera eguale per tutti, senza timori reverenziali o condiscendenza per nessuno. Quindi un magistrato scomodo per chi strilla più giustizia, ma in realtà ne vuole sempre meno. Da attaccare applicando la tecnica di infausta memoria del ”colpiscine uno per educarne cento”, così mirando al bersaglio “grosso” della magistratura tutta, da riportare ai bei tempi di una sostanziale sintonia col potere.

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