Mario Draghi e l’ipoteca Quirinale: lo scenario che agita i partiti


I due vincitori del 2018, M5S e Lega, sono entrambi al governo ma irrilevanti come i post-grillini o irretiti come i leghisti. Eppure conteranno moltissimo nella scelta decisiva, il prossimo capo dello Stato. È la loro golden share e l’assicurazione sul futuro. Per questo, e non solo per l’infuriare della pandemia, Salvini ha rinunciato alla richiesta di elezioni anticipate ed è entrato nel governo Draghi. Né si prepara a invocarle per i tre mesi che restano prima dell’inizio del semestre bianco. A favore di uno scioglimento anticipato resta qualche osservatore libero come Rino Formica: non si può affidare a un Parlamento ingovernabile, delegittimato anche dal taglio del numero di deputati e senatori e non più rappresentativo del Paese l’approvazione delle riforme contenute nel Piano, a cominciare dalla riforma della giustizia, della pubblica amministrazione, del fisco, e l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Meglio che Mattarella sciolga le Camere, anche negli ultimi giorni di luglio, prima che scatti l’impossibilità stabilita dalla Costituzione, per accorpare le elezioni politiche alle elezioni amministrative di ottobre.

I partiti, però, vanno nella direzione opposta. Proseguire con la legislatura e con il governo Draghi fino alla scadenza naturale del 2023. Nel Pd in tanti ascoltano i ragionamenti del nuovo segretario Enrico Letta. È necessario che Draghi resti a Palazzo Chigi perché è lui il garante del Piano in Europa. È stata la sua telefonata con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen a sbloccare l’impasse. È lui il possibile leader dell’Unione nei prossimi mesi, quando finirà l’era di Angela Merkel in Germania e in Francia Emmanuel Macron dovrà battersi per la rielezione all’Eliseo (l’arresto dei terroristi rifugiati a Parigi da decenni fa parte della sua campagna). Ma Letta pensa che sia anche una convenienza del suo Pd lasciare che Draghi continui a governare. La Lega, Forza Italia e M5S per motivi diversi potrebbero spingerlo, verso il Quirinale anche per mancanza di altri candidati, ma si aprirebbero scenari incerti. Chi prenderebbe il posto di Draghi a Palazzo Chigi? Anche se fosse una figura di sua assoluta fiducia (il timore di Letta, e forse ancor più di Salvini, è che sia Giancarlo Giorgetti), è il capo del governo che rappresenta l’Italia nei vertici europei e internazionali, Draghi non ci sarebbe in prima persona. E la spinta per un voto anticipato diventerebbe quasi irrefrenabile, nonostante la resistenza degli attuali parlamentari che sanno di essere al capolinea. Con la probabile vittoria della destra, nonostante le divisioni tra Salvini, Meloni e quel che resta del partito di Silvio Berlusconi.


Il Pd ha bisogno di tempo. La strategia di Letta è arrivare all’elezione del presidente della Repubblica con Draghi solidamente a Palazzo Chigi, con una missione e un mandato che vada oltre la campagna di vaccinazione (si spera che in quel momento il pericolo mortale della pandemia sia almeno alleggerito). E con la creazione di una maggioranza politica all’interno della maggioranza istituzionale che sostiene il governo Draghi.


La coalizione Ursula che fu lanciata e poi italianizzata da Prodi (Orsola) durante la crisi del primo governo Conte nell’estate 2019. I partiti italiani che nel Parlamento europeo avevano votato per la presidente della Commissione europea: il Pd, M5S e Forza Italia. Con l’esclusione della Lega. Nel 2019 il progetto fallì perché Forza Italia restò fedele allo schieramento di centro-destra con cui governa regioni e città in tutta Italia. Nel 2021 la Lega ha deciso di entrare nell’operazione Draghi e ha reso ininfluente lo spostamento in maggioranza di Forza Italia. Ora il tentativo si ripete: Pd, quel che resta di M5S, la sinistra di Leu, i centristi sparsi e Forza Italia potrebbero essere la maggioranza da cui partire per eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

La corsa è sotterranea, ma è già in pieno svolgimento. Con almeno tre candidati in campo, più altri nomi in riserva. «Negli anni Novanta il sistema politico in crisi di legittimazione e di rappresentanza provò a ricorrere alla società civile. Oggi si guarda alle figure femminili, le donne che sono state tenute lontane dagli incarichi di vertice e che non portano responsabilità per la crisi», dice Formica. La prima è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, la prima donna a presiedere la Corte costituzionale, cattolica, molto stimata da Mattarella, nel governo senza un partito di appartenenza ma in quota Quirinale. La sua lunga intervista al direttore della Stampa Massimo Giannini nel giorno della Liberazione si è segnalata per la vaghezza su alcuni futuri provvedimenti del ministero (La prescrizione? «Sto riflettendo». Le intercettazioni? «Un dossier che non ho neanche iniziato a istruire»). In compenso, ha auspicato l’unità contro le lacerazioni, il superamento del derby tra gli opposti ismi (garantisti vs. giustizialisti), «dobbiamo abituarci a pensare non per aut aut ma per et et», ha citato il democristiano Paolo Emilio Taviani, che fu partigiano bianco ma anche fondatore di Gladio, per strappare la Resistenza e l’antifascismo al monopolio della sinistra di matrice Pci: l’attenta costruzione di un’immagine presidenziale, in continuità totale con Mattarella, spendibile anche tra i moderati del centro-destra.


Il secondo nome è un’altra donna, la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato (preferisce essere chiamata al maschile) Maria Elisabetta Alberti Casellati. Sarebbe la candidata del centro-destra. È una berlusconiana da sempre, ma il Movimento Cinque Stelle l’ha già votata tre anni fa per la presidenza del Senato e nel Pd c’è chi fa il tifo per lei. La sua marcia di avvicinamento a sinistra è partita da tempo. Il 2 agosto di un anno fa, per la commemorazione dei quarant’anni della strage di Bologna, si presentò sul palco di Piazza Maggiore vestita di bianco per annunciare la sua determinazione a cercare verità e giustizia. Si deve guardare soprattutto da se stessa: i 124 voli con l’aereo di Stato organizzati per tornare a casa in Veneto e andare in vacanza in Sardegna, rivelati da Repubblica (28 aprile), non sono il biglietto da visita ideale.

Il terzo nome è il ministro della Cultura Dario Franceschini. Il nome forte del Pd, prudente, defilato, anche lui si è fatto vivo con un’ampia intervista (Corriere della Sera, 27 aprile), in cui ha definito quello di Draghi «un governo di avversari che devono collaborare». Le sue quotazioni crescerebbero se Roberto Fico decidesse di candidarsi a sindaco di Napoli e lui dovesse diventare presidente della Camera. Indecifrabile il suo rapporto con Enrico Letta, di cui è amico personale, quasi un gemello politico dai tempio in cui furono giovani vice-segretari di Franco Marini nel Ppi, ma non senza rivalità e qualche sotterraneo dispetto. Sul Quirinale Franceschini è disincantato: «Il presidente eletto è qualcuno che riceve una telefonata il giorno prima del voto. E spesso neppure quella basta», ripete in giro. Il che non esclude che quel qualcuno possa essere lui.


I nomi di riserva sono due vecchie glorie molto legate a Letta che si sono già cimentate senza fortuna in quei mondiali di calcio della politica (altro che Superlega) che sono le elezioni per il Colle: Romano Prodi e Giuliano Amato. E due nomi che ora presidiano le postazioni italiane a Bruxelles: il commissario Paolo Gentiloni e il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Hanno un difetto: sono tutti di centro-sinistra. Mentre il centro-destra ha una storica penuria di candidati: nel 2015 Lega e Fratelli d’Italia non trovarono nulla di meglio che votare per Vittorio Feltri.


Così, alla fine, la corsa per il Quirinale torna al via, al punto di partenza. All’attuale inquilino Sergio Mattarella. Che ha fatto conoscere più volte la propria indisponibilità sul piano personale e istituzionale. Rieleggere per la seconda volta un presidente in carica, come successe a Giorgio Napolitano nel 2013, e ancor più vincolarlo – senza dirlo – a una rinuncia anzitempo, significa mettere a grave rischio la tenuta del sistema, nel suo punto più delicato. Per convincere Mattarella a cambiare idea sarebbe necessario, almeno, aprire il tavolo delle riforme istituzionali accanto al Recovery richiesto dall’Europa. Sul tavolo il pacchetto che nei piani della precedente maggioranza giallorossa avrebbe dovuto accompagnare il taglio dei parlamentari: una nuova legge elettorale, il ridisegno dei poteri di Camera e Senato, il riequilibrio del corpo elettorale che elegge il presidente della Repubblica (il peso dei delegati regionali sarebbe troppo alto rispetto a quello ridotto di deputati e senatori).


Il Piano Riforme dovrebbe costringere Mattarella a restare al suo posto, come il Recovery inchioda Draghi a Palazzo Chigi, il tutto per tutelare la sopravvivenza di una classe politica fallita. Ma è l’immagine di un sistema bloccato e impotente. Con un Parlamento senza radici nella società, un esecutivo di unità nazionale guidato dal supertecnico e l’impossibilità di eleggere un nuovo capo dello Stato. Ci sono pochi mesi per evitare questo scenario. Che non significherebbe la celebrazione dei 75 anni della Repubblica. Ma il suo svuotamento definitivo.

L’ESPRESSO

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