Molto di nuovo

Prendendo di petto il Sultano, Draghi sembra voler ridare voce all’Unione e tono all’Italia. A partire proprio dal Mediterraneo, che un tempo era Mare Nostrum e adesso è risucchiato nel gorgo dei nuovi imperialismi asiatici. Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti). Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita. Un avviso ai naviganti che vale anche per gli alleati europei: deboli, divisi e indecisi a tutto.

E in questo caso, forse, c’è una saldatura più marcata con l’America post-trumpiana. L’Erdogan “dittatore” di Draghi fa il paio con il Putin “killer” di Biden. Un linguaggio comune, improprio ma inequivoco, per riallacciare le relazioni transatlantiche all’insegna della difesa delle democrazie occidentali e della denuncia esplicita dei regimi illiberali. Che se non sono dittature (come nel caso della Cina) sono per lo meno “democrature” (come nel caso della Turchia e della Russia). E che al di là della “volontà di potenza” di chi le comanda, non sono né insensibili né impermeabili al “soft power” esercitato dal mondo libero.

Erdogan è in palese difficoltà. Si avvicina alle elezioni del 2023 col fiato sempre più corto. È in crisi nera sull’economia: il Pil non cresce, l’inflazione vola al 15% e la cacciata del governatore della Banca centrale Naci Abgal ha prodotto una svalutazione della lira turca pari al 15% sul dollaro. È in conflitto con interi pezzi della società: milioni di giovani non dimenticano le proteste di Piazza Taksim e centinaia di migliaia di donne scendono in piazza ogni fine settimana dopo la clamorosa decisione del governo di uscire dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere. È in caduta verticale nei sondaggi: ad oggi il suo partito, l’Akp, non raggiungerebbe il 51% neanche con gli alleati del Movimento Nazionalista.

Putin non se la passa tanto meglio. In patria cresce il disagio alimentato dal martirio a bassa intensità di Navalny nella colonia penale di Pokrov, dove il leader dei dissidenti si consuma in uno sciopero della fame che nutre le speranze malcelate del Cremlino su una sua fine rapida e magari non troppo dolorosa. Fuori dai confini crescono le tensioni nel Donbass, dove lo Zar non ha ancora deciso quale strategia intraprendere, mentre il ministro degli esteri ucraino Dmitro Kuleba denuncia ufficialmente “l’aggressione armata della Federazione Russa” e il New York Times scrive “le intenzioni di Putin non sono chiare ma la manovra, decisa per mettere alla prova il nuovo presidente statunitense, potrebbe rapidamente degenerare”.

Queste autocrazie non sono superpotenze inespugnabili. E con queste autocrazie dobbiamo comunque “fare i conti”, come ha detto lo stesso Draghi. In senso diplomatico, ed anche in senso economico: perché dove passano le merci non passano gli eserciti, perché in Turchia lavorano 1.500 aziende italiane e perché con Ankara abbiamo un interscambio che vale 19 miliardi. Ma queste autocrazie vanno affrontate a viso aperto. Perché, come scrive Anne Applebaum nel suo “Tramonto della democrazia”, è anche possibile che la nostra civiltà stia già dirigendosi verso l’anarchia o la tirannia, che il XXI secolo vedrà arrivare al potere una nuova generazione di “chierici”, fautori di idee autoritarie, e che la paura del Covid genererà anche la paura della libertà. Ma dipende solo da noi far sì che la pandemia ispiri invece un nuovo senso di solidarietà, e che la realtà del dolore e della morte insegni alle opinioni pubbliche a diffidare di bugiardi, populisti, imbonitori. E persino dittatori, veri o falsi che siano.

LA STAMPA

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