Siamo il Paese delle categorie

di Antonio Polito

L’Italia che salta la fila non è solo un fenomeno di costume, da «lei non sa chi sono io», sebbene alcuni beneficiati non sfigurerebbero affatto in un film di Alberto Sordi. È anche l’autobiografia di una nazione, perché rivela una struttura profonda della nostra società, in cui le persone contano di più e hanno più diritti in quanto membri di una categoria o di una corporazione, un gruppo o un’associazione, un ordine o un albo, che come cittadini. «Ballerine, modelle, professori d’orchestra, insegnanti di discipline sportive, istruttori di scuola guida, cuochi e camerieri»: ha raccontato il Corriere che c’era di tutto nell’elenco dei 57 mila aspiranti vaccinati nel portale della Regione Toscana, che vanta il primato italiano di immunizzati tra gli under 59 e la maglia nera tra gli over 80. E ciò che è notevole, in Toscana come del resto altrove, è che tutto sembra nei limiti della legalità. Non siamo insomma di fronte a singoli furbetti, ma a un sistema di antica origine, che seleziona per arti e mestieri, secondo il criterio medievale delle gilde. Una specie di codice Ateco della cittadinanza.

Accade non solo per i vaccini. Sono più di settecento le categorie di italiani che godono di forme peculiari di deduzione, detrazione o sconto fiscale, una giostra che costa allo Stato (cioè agli altri contribuenti) più dell’intera evasione. E ancora combattiamo, pur dopo tante e dolorose riforme, con i residui di una giungla pensionistica che ha assorbito i due terzi della nostra spesa sociale. Con il risultato che il diritto alle prestazioni del welfare non è universale, cioè uguale per tutti indipendentemente dal lavoro che si fa e dalla posizione sociale che si ricopre. Di liste speciali ce ne devono essere molte. Il lavoro degli italiani è capire come ci si entra.

Più che una democrazia, la nostra assomiglia a una timocrazia, come nell’antica Roma repubblicana: le teste non si contano, si pesano. Solo che al posto del criterio del censo, reso ormai obsoleto dalla società di massa, si è sostituito quello del «prestigio», dello «status». Come si fa a dire di no a un magistrato o a un giornalista? Come si fa a dire di no al figlio di un collega o alla sorella del capo? C’è tutta una trama di relazioni sociali basate su rapporti di patronato e di clientela. Aspettando il ritorno dello Stato, annunciato da Draghi, ci sono ancora pezzi d’Italia in cui si va avanti come un tempo nell’Unione Sovietica: con il «blat», l’economia dei favori, rivolgendosi a «chi sistema le cose» per ottenere servizi altrimenti irreperibili. Anzi: la rapidità e la facilità con cui si riesce ad accedere a diritti che dovrebbero essere uguali per tutti è la nuova forma di «distinzione sociale», il nuovo «habitus» che indica la reale posizione di un individuo nelle gerarchie, e ci consente di riconoscerne lo status anche se veste e mangia come noi.

Siamo così bravi a questo gioco noi italiani, e i poteri pubblici sono diventati così pronti ad assecondarlo distribuendo vantaggi e protezioni alle singole categorie invece di perseguire l’interesse generale (l’apoteosi dei bonus ne è stato il simbolo), che verrebbe quasi da chiedersi perché non ci rassegniamo. Magari se lo Stato distribuisse i vaccini a sindacati e Confindustria, all’Ordine dei commercialisti e all’Albo dei geometri, si farebbe prima: ognuno vaccina i suoi e i relativi parenti, e non c’è neanche bisogno dell’esercito.

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