Dimissioni Zingaretti, comunque vada sarà un fallimento

Che non lo sapesse nessuno anche se quella parola, “dimissioni”, nei suoi sfoghi, più volte l’aveva pronunciata da settimane, questa è una certezza. Il “me ne vado” di fronte a quello che viveva come un “logoramento”, un “bombardamento del quartier generale” o semplicemente l’amara constatazione di non riuscire più a governare un partito diventato una confederazione di correnti, anche per proprie (non ammesse) responsabilità.

Il come vada a finire è invece tutt’altro che una certezza, alimentata dal modo in cui Nicola Zingaretti le sue dimissioni le ha annunciate, dure ma tutt’altro che “irrevocabili” per ora (“le presenterò”), e dalle parole, un po’ grilline, con cui si è scagliato – come se ne fosse estraneo – contro il partito che ha diretto finora, dove si parla “solo di poltrone” e “primarie”. Mossa che, maliziosamente, si presta ad essere letta come un estremo rilancio, proprio di chi dice “piatto”, per ottenere una nuova legittimazione già alla prossima assemblea del 13 marzo. Per la serie: se volete che resti, come pressoché tutti i capicorrente che finora lo hanno sostenuto chiedono, resto però alle mie condizioni, e addio dibattito.

Chi si dimette, si dimette, come accaduto per Veltroni, Bersani, anche Renzi, e spiega, al contempo, anche come garantire un percorso ordinato verso il dopo, a maggior ragione in un contesto di emergenza come questo e in presenza di quella sfida da far tremare le vene ai polsi richiamata come un’accusa verso un partito sordo e impermeabile di fronte ai drammi della realtà. In questo caso invece le parole indicano una volontà, indignata e rabbiosa, non un fatto, che però all’esterno ha un impatto devastante, perché se questo è il giudizio del segretario figuriamoci cosa può pensare il paese in termini di affidabilità e serietà di un partito così ridotto. Ma lasciano margini affinché i solidi azionisti della sua maggioranza lo impediscano, anche se, in questo caso, l’esito farsesco sarebbe un ulteriore colpo di credibilità, perché le parole hanno un peso e un finale di questo tipo si presterebbe alla lettura di una mossa pensata per rinsaldare la propria di poltrona, con meno disturbatori.

Comunque vada a finire è il segno di una crisi politica vera, non a caso squadernata dopo la nascita del governo Draghi: il Pd, paradossalmente, è il partito che più subisce i contraccolpi del governo, perché era quello che poteva più guidare questa soluzione come esito più sostenibile, avendo nel Dna la famosa responsabilità. E invece ne esce squassato perché si sente orfano del precedente più dei Cinque stelle.

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