Il regista Draghi e il dramma Italia

Massimo Cacciari

Cresce la voglia di miracoli, dilagano le cieche speranze. Intramontabile carattere del genio italico: l’arte del compromesso al ribasso, del trasformismo, del nascondersi o rimandare i problemi, fa tutt’uno con gli esercizi retorici sulle rinascite, sui rinascimenti o sulle ricostruzioni. A ogni cambio di governo, da 30 anni a questa parte, ascoltiamo il ritornello sulle irrinunciabili riforme e sulla certa promessa del loro imminente realizzarsi. Ora abbiamo un premier che sembra almeno non ripetere il gioco ed essere ben consapevole dei concretissimi fini che sono a sua portata, e tuttavia i suoi soci di maggioranza, così come le varie organizzazioni di categoria, vanno a gara nell’illudere che un governo di questa natura possa seriamente affrontare questioni su cui tutte le forze politiche, pur combinandosi e ricombinandosi nei più svariati modi, son naufragate – e per ragioni culturali, strategiche, ben prima che per fragilità organizzativa o per errori tattici.

Sarebbe manna sui nostri deserti se Draghi varasse un Recovery Plan che contenga obiettivi di sviluppo e non solo di assistenza, salvataggi e incentivi a pioggia, e poi una legge di bilancio che davvero contrasti l’intollerabile aumento delle disuguaglianze che questa crisi va producendo. E già sarebbe poi un quasi-miracolo se il suo governo riuscisse a superare le contraddizioni, i ritardi, le disfunzioni incredibili che hanno segnato l’inizio della campagna-vaccini. Si sa, infatti, che questa situazione dipende anche e soprattutto dal modo in cui è organizzata la sanità, e cioè dal rapporto irrazionale tra poteri centrali e Regioni, ma, per carità, lasciamo perdere l’idea che un nodo di tale portata possa essere anche solo pensato da un “governo di guerra”come l’attuale. Il “principio di realtà” non è mai stato uno di quelli più frequentati dalle nostre parti, ma l’uomo che viene da Bruxelles e Francoforte dovrebbe averlo saldamente nelle sue corde.

Certo egli non potrà contrastare l’ondata sempre meno arrestabile che emerge da sempre più vasti settori dell’opinione pubblica. Non si tratta ancora dell’appello all’Uomo Forte di fronte alla impotenza delle forze politiche in campo, appello che, nelle condizioni storiche attuali, sarebbe comunque destinato a cadere nel vuoto. Si tratta, piuttosto, di un ingenuo “decisionismo” tutto ideologico, velleitario, ampiamente diffuso, peraltro, in settori significativi delle cosiddette èlites dirigenti. Ideologia che sottovaluta o ignora, da un lato, il ruolo fondamentale che la struttura amministrativa, tecnica, burocratica svolge negli assetti istituzionali e politici del mondo contemporaneo, e, dall’altro, la funzione dei corpi intermedi nella costituzione di una democrazia progressiva( “idea regolativa” della nostra Costituzione). Ecco, allora, la pulsione al Regista, all’uomo capace finalmente di mettere in scena il dramma come si deve. Peccato che nessun regista, per quanto in teoria meraviglioso, sarà mai in grado di farlo se dispone di guitti di strada, di tecnici di luci, scenografi, costumisti da tre soldi. Il Regista funziona se coordina e combina competenze – e competenze al lavoro non solo per se stesse, per i propri legittimi interessi, ma anche per la riuscita complessiva dello spettacolo, e cioè che conoscano il dramma da rappresentare e magari pure lo amino. Tali competenze, nella loro sinergia, il Regista le potrà valorizzare, ma non sarà mai lui a produrle – dovranno formarsi da sé, organizzarsi autonomamente.

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