Domenico Arcuri, dominus dell’emergenza e parafulmine: così è caduto il commissario che amava la ribalta

di Federico Fubini

Il rapporto fra Domenico Arcuri e Giuseppe Conte andrà studiato dai cultori della scienza politica come esempio di ciò che può portare la scaltrezza e l’accecamento del potere in un contesto di istituzioni deboli. Gli equivoci, gli errori, gli scarichi di responsabilità e anche ciò che ha funzionato: niente nella vicenda del manager che fino a oggi è stato commissario straordinario è comprensibile senza includere nell’equazione la psicologia dei protagonisti e il contesto del Paese. La cui debolezza, del resto, è conclamata.

Al momento in cui esplode Covid-19 un anno fa, la Protezione civile può contare su un patrimonio di conoscenza ed efficienza nel gestire le sciagure che conosce: i terremoti, le inondazioni, i cedimenti idrogeologici. Ma non una pandemia, allora fuori dai radar mentali della struttura. L’ultima, l’influenza di Hong Kong, aveva raggiunto l’Italia più di mezzo secolo fa e la sua memoria ormai era per pochi. Succede così che all’esplodere del contagio nei magazzini della Protezione civile manchino persino le mascherine, e poco importa se altrove nel mondo questi anni sono stati un susseguirsi di minacce virali più o meno devastanti: Sars, suina, aviaria, le febbre del Medio Oriente (Mers), Ebola, Zika. Ci si poteva pensare, ma non lo si è fatto.

Arcuri entra in scena a quel punto. Giuseppe Conte, a capo del suo secondo governo, a metà marzo del 2020 nomina questo manager pubblico da sempre vicino alla tradizione del Pd. Il suo compito: riempire i vuoti. Quelli organizzativi, quelli amministrativi e quelli visibili ovunque nella cintura di trasmissione dalla politica alla burocrazia. Arcuri è un calabrese di Melito di Porto Salvo, 57 anni, cresciuto formandosi come molti meridionali ambiziosi e di valore alla scuola militare della Nunziatella a Napoli, per poi laurearsi alla Luiss e avviare una carriera da manager: prima l’Iri, quindi Deloitte dove diventa amministratore delegato per l’Italia, quindi il ritorno all’impresa pubblica in Invitalia.

A lui Conte chiede di fare il «commissario straordinario» per «l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19». E beato quel popolo che non ha bisogno di commissari straordinari. Perché la missione di Arcuri è procurasi mascherine al più presto — saltando le labirintiche procedure ordinarie dello Stato — e organizzarne una produzione nazionale. Intanto deve fare lo stesso con i respiratori da terapia intensiva e, via via, con qualunque bene serva o venga richiesto in questi mesi: dai banchi a rotelle per la scuola alle siringhe per i vaccini, alla gestione delle forniture di fiale da parte di Pfizer, Moderna e AstraZeneca. Quindi al manager viene richiesto di organizzare una strategia nazionale per la somministrazione.

Lui accetta e lo fa con un piglio che non denota mai umiltà. Un Paese normale, con una normale capacità di funzionamento, non avrebbe avuto bisogno di una figura del genere. Conte invece prende Arcuri, lo piazza sotto le luci della ribalta e affida tutto a lui. Ma il rapporto fra i due uomini — il primo pugliese, l’altro calabrese — va capito nella sua profonda ambivalenza. Conte dà mostra di non fidarsi di nessun altro, quasi che l’Italia intera non avesse altro talento gestionale se non quello di Arcuri. Si instaura un rapporto tra capo del suo bunker e fedelissimo in battaglia. Un legame sempre sul limite del cortocircuito istituzionale, anche perché la struttura della Protezione civile entra di fatto in un cono d’ombra. Arcuri del resto non trova affatto sgradevoli le luci della ribalta, anzi. In più ha una grande fiducia nelle proprie capacità e non si tira indietro di fronte a nessuna delle sempre nuove e pressanti richieste del premier che passa ottobre e novembre — preso di sorpresa dalla seconda ondata — a almanaccare e esitare sulle chiusure.

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