L’emozione di (ri)vedere il mio commissario Ricciardi

di Maurizio de Giovanni

L'emozione di (ri)vedere il mio commissario Ricciardi

Ho incontrato Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte e commissario di pubblica sicurezza, in una caldissima mattina di giugno di quindici anni fa. Il luogo era magico, un ponte sospeso sul tempo, il Caffè Gambrinus, nel centro della città: ero alla ricerca di qualcosa da raccontare per un concorso al quale ero stato iscritto per scherzo, io che ero un lettore e che a mettermi a scrivere non ci avevo mai pensato. Qualche parola su un foglio, per non essere l’unico a non aver immaginato niente e per poi tornarmene alla mia vita da bancario. Girando attorno il mio sguardo privo d’ispirazione lo vidi là, nella penombra, gli occhi perduti nel vuoto e un caffè che gli si freddava davanti. Brillantina, un ciuffo sulla fronte che ogni tanto metteva a posto con un gesto nervoso della mano, un soprabito (con quel caldo!) dal bavero rialzato.

Ricordo gli occhi, verdi, che inseguivano chissà cosa e che, all’improvviso, si fissarono su un angolo deserto, una sedia vuota, come vedesse qualcosa che era invisibile agli altri. Ora che ci penso, quella fu l’unica volta in cui potei vederlo. Dall’esterno, perché nella sua anima tormentata ho poi vissuto per tre lustri, dodici romanzi e una decina di racconti, mille presentazioni e innumerevoli interviste a raccontare i suoi pensieri, le emozioni e gli amori, i sentimenti e le paure.

Il rapporto tra un autore e un personaggio è simile a quello che si ha con se stessi. Ci si guarda allo specchio la mattina, ci si vede di sfuggita per sistemarsi, e se poi capita di imbattersi in una foto in cui si compare e nemmeno ci si riconosce. Posso dirvi cosa pensa e cosa sente Ricciardi in ogni istante della sua vita, ma non saprei descrivervi il suo corpo o il volto nei minimi particolari. Non è quello che devo raccontare. È forte perciò l’emozione a vederlo muoversi per le strade della sua città, che è la mia, nella sua epoca. Riconoscerne il portamento, l’espressione del volto, le esitazioni nella parola. E con lui gli altri, i personaggi che mi sono venuti a trovare negli anni e che hanno composto un mondo completo in ogni parte, per me più vero della realtà in cui vivo.

Ricciardi è strano, sapete. È come se fosse rinchiuso in una cella, dalla quale continua a urlare e a chiedere aiuto, ma nessuno lo sente. È convinto di essere pazzo, in un tempo in cui i pazzi venivano messi senza pietà in luoghi terribili che assomigliavano all’inferno, e quindi nasconde a tutti la propria condizione, come un atroce segreto inconfessabile che se venisse scoperto diventerebbe una condanna definitiva.

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