C’erano una volta adunate e processioni. Il Coronavirus ci ha portato via il pubblico

di CHIARA DI CLEMENTE

La vera tenerezza per gli esseri umani ti sopraffà quando non ti stanno più intorno”, diceva Elias Canetti che sull’argomento era piuttosto ferrato, avendo impiegato circa quarant’anni della propria esistenza per completare la scrittura del monumentale saggio Massa e potere.

Oggi il potere c’è sempre, manca la massa. Per via del Covid stiamo imparando a vivere nel vuoto delle altre persone. Viviamo un dolore solitario, come quello che attanaglia la città della Peste di Camus: “Quella reclusione che portava con sé una spaventosa libertà rispetto a tutto ciò che non era il presente, mentre era verso la felicità che tutti volevano tornare”. Di anime in attesa, parla Camus, e noi quello siamo. Chiusi in casa, in attesa che tutto questo finisca, e se andiamo fuori, andiamo fuori da soli, stiamo in fila da soli, distanziati, sospettosi, pronti alla fuga. Siamo pubblico assente dai cinema, dai teatri o dagli studi tv: su La7 Zoro, a Propaganda Live, ha piazzato su ogni poltrona del suo salotto tv il cartonato di un personaggio noto, da Ezio Bosso a Thom Yorke, da Proietti a Ocasio-Cortez; a Ballando con le stelle la Carlucci invita i concorrenti a ringraziare per gli applausi una platea inventata al computer.

Stadi vuoti, pubblico assente dalle partite il che, se il sommo attore fosse ancora vivo, irriterebbe non poco Carmelo Bene: meglio gli stadi pieni di ultrà una volta alla settimana, diceva quando ancora si giocava solo di domenica, perché almeno i delinquenti stanno tutti chiusi radunati in un unico posto, e la gente perbene può camminare tranquilla nel resto della città. Non c’è pubblico che si affolla ai concerti: ora vanno di moda queste cose in streaming. Ti piazzi su una seggiolina o sul divano, guardi il tuo cantante rock e i suoi duetti virtuali sullo schermo e alla fine non è più la musica che ti trafigge il cuore, ma il senso di isolamento che arriva dritto a offuscare il cervello, perché veniamo da lì e lì vogliamo tornare, alla musica che è condivisione. Alla musica che è stare ore in piedi ammassati alle transenne, avanzare sgomitando tra gli avversari umani come indiana jones avanza nella foresta a colpi di machete per conquistare un posto sotto il palco, cantare tutti abbracciati, urlare brus brus brus, ballare pogando tirando calci e saltando sui piedi degli altri, sì, ho cinquant’anni ma adesso ne ho 20, come te, come tutti. Noi. Qui. Il rock è fisicità, è sesso, è amore: farlo al computer? Possibile, certo, ma anche abbastanza inutile, abbastanza e infinitamente triste.

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