Tutto quello che è necessario fare

di Antonio Polito

Stiamo facendo «whatever it takes», per far uscire l’Italia da questa tragedia? Tutto quello che serve? Costi quel che costi? È ciò che ognuno di noi dovrebbe chiedersi. Innanzitutto i decisori politici. Secondo noi la risposta è no. Almeno da due punti di vista. Il primo riguarda le risorse mobilitate. Spendiamo molto per rincorrere l’epidemia. Ma investiamo troppo poco per anticiparla. Ci sono già tre regioni del Sud costrette a chiudere non per il numero dei casi o per l’indice di contagiosità, ma per la carenza dei loro sistemi sanitari: Campania, Calabria, e presto l’Abruzzo per richiesta del suo stesso governatore. Non è questione di sfortuna, e neanche solo di comportamenti individuali: è questione di risorse e di organizzazione. D’altra parte su tutto il territorio nazionale la medicina territoriale e l’assistenza domiciliare non hanno retto neanche alla seconda ondata. Gli ospedali sono al limite ovunque, medici e infermieri allo stremo. L’Italia non sta facendo tutto quello che serve. E la differenza, sul lungo periodo, si calcola purtroppo in sofferenze e vite umane. Se i soldi del Mes non ci servono, come è stato autorevolmente dichiarato, per la Sanità ce ne servono comunque molti, e presto.
L’altra domanda riguarda le forze politiche: stanno facendo tutto ciò che possono per mettere le loro idee e il loro consenso al servizio dell’unica cosa che oggi conti, e cioè salvare la nazione nell’ora del massimo pericolo? La risposta deve essere di nuovo no. Due settimane fa, su queste colonne, lanciammo un appello all’unità rivolto alla maggioranza e all’opposizione: nelle forme più sagge e realistiche, smettetela di litigare sul resto (che si può anche mettere in archivio per un po’) e lavorate fianco a fianco contro il Covid nell’interesse nazionale. Una disponibilità effettiva è finora venuta solo da due parti: Berlusconi e Forza Italia da un lato, che si sono offerti di partecipare alla stesura della legge di Bilancio per non far mancare l’ossigeno all’economia del Paese; Zingaretti e Bettini per il Pd dall’altro, che si sono subito espressi per raccogliere questa disponibilità e renderla operativa. Per il resto, silenzio.

Silenzio dal presidente Conte, innanzitutto. Strano, perché il premier dovrebbe essere il più interessato a raccogliere una tale offerta, che rafforzerebbe la sua situazione in Parlamento e nel Paese. Fu lui del resto, anche se dopo mesi di esibita autosufficienza, a fare proprio due settimane fa il primo passo, proponendo di trovare una sede parlamentare per l’azione comune. Si deve dunque presumere che, se Conte oggi non si muove, è perché non può. È infatti nei Cinquestelle che si annida il veto verso una tale svolta; e gli equilibri in quel partito sono così instabili, quasi gassosi, che anche il battito d’ali di un Di Battista basta a far tremare le mura di Palazzo Chigi. Diviso com’è, il M5S non sa stare al governo se non contro qualcuno.

L’altro veto proviene da Salvini e dalla componente «sovranista» del centrodestra. A parole dicono di essere pronti al confronto, «purché in Parlamento». Ma la condizione posta è talmente ovvia che serve solo a nascondere un no. Se in Parlamento ci si va infatti sulla base di un’intesa, si possono scrivere insieme le leggi in commissione; ma se ci si va per guadagnare voti, lo si usa per battere i pugni durante le sedute in diretta tv. Finora abbiamo visto solo la seconda modalità.

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