Calenda fischia l’inizio a Roma

Il che tanto un dramma non è perché in assenza di un candidato forte gradito al Pd sarebbero state le famose primarie dei sette nani. E forse anche per questo Calenda si è detto disponibile a farle, pur sapendo che non si fanno, quando in un primo momento era assai restio temendo che, in una consultazione con pochi partecipanti, il Pd avrebbe avuto comunque la forza di mobilitare il nucleo resistente della militanza su un candidato per batterlo. Che era poi l’idea di Goffredo Bettini: imbrigliamolo nelle primarie e se perde ce lo siamo tolto di torno.

Dicevamo, la contromossa. Esplicitata stamattina da Andrea Romano ad Agorà, con la benedizione del Nazareno: “Serve una legge speciale su Roma, la maggioranza di governo se ne faccia carico insieme a una riflessione su un candidato comune”. Tradotto: l’emergenza rende necessaria una nuova legge sulla Capitale, sui poteri e sulle risorse su cui Roma può poter contare, che sia anche di rango costituzionale. Se questa esigenza viene avvertita dalle forze di maggioranza, Pd e Cinque stelle in primis, diventa naturale poi una riflessione comune su un candidato comune. Tradotto ancora: il Pd sta aspettando di capire se ci sono margini affinché la Raggi si possa ritirare e come matura la discussione su Roma, nell’ambito di un tavolo nazionale sulle città che, pur se non formalizzato, è già in atto. A Torino i due partiti si stanno parlando attorno alla necessità di un civico, a Milano, complice la grande amicizia di Sala con Grillo, la discussione è partita in modo sereno, su Napoli l’idea di Roberto Fico piace a Franceschini che, secondo i più maliziosi, punterebbe a quel punto al ruolo di presidente della Camera per affrontare la partita del Quirinale da terza carica dello Stato.

Dunque, l’attesa. Legata anche alle vicende giudiziarie della Raggi, su cui il prossimo 19 ottobre si pronuncerà la Corte d’Appello di Roma, in relazione al processo per falso sulla vicenda della nomina, poi ritirata, di Renato Marra, fratello del suo ex braccio destro Raffaele, a capo del Dipartimento Turismo di Roma Capitale. Se non venisse confermata l’assoluzione del primo grado sarebbe più facile, anche all’interno del Movimento, “scaricarla”, a maggior ragione dopo il buon esempio dato da Chiara Appendino. O comunque ci sarebbe un elemento di pressione. Perché un altro punto fermo in questa storia è che lei, Virginia, non ha alcuna intenzione di mollare, ma è stata mollata pressoché da tutti. Nel Movimento solo Di Battista si scandalizzerebbe di fronte a un suo sacrificio sull’altare dell’alleanza col Pd e parecchie inquietudini serpeggiano anche all’interno dei consiglieri comunali che la sostengono: “Se prende il 14 per cento – questo è il senso dei ragionamenti – ne eleggiamo solo tre”. Tuttavia in un Movimento dove non c’è più un “uno che vale tutti” si chiami Grillo o Casaleggio nessuno può avere la forza, a freddo, di imporre un passo indietro.

E torniamo all’attesa del Pd. Se salta la Raggi, bingo, ma se non salta (ed è su questo presupposto la discesa in campo di Calenda), delle due l’una: o sostiene Calenda, come vorrebbe la cosiddetta ala riformista del partito o serve un altro candidato più forte di Calenda, il cui limite per Zingaretti, è quello di non essere competitivo al secondo turno perché i Cinque stelle non lo voterebbero. E se invece il candidato fosse proprio Nicola, di fronte a una situazione incartata e al rischio di perdere Roma proprio in un momento in cui il segretario del Pd è romano de’ roma? Solo a porre la domanda si rischia una smentita calorosa per tante evidenti ragioni: si dovrebbe dimettere da presidente della Regione, si dovrebbe dimettere anche da segretario, col rischio di perdere regione e partito. Però il ragionamento è stato fatto, sia pur per essere accantonato al momento. C’è chi lo chiama “l’arma da fine del mondo”, perché è ardito, ma politicamente ha una sua logica: manderebbe in crisi i Cinque stelle, sarebbe una candidatura in grado di fare il pieno al secondo turno, potrebbe spingere a un passo indietro anche Calenda, trainerebbe consenso anche sul voto del Lazio in un election day. E poi Roma è Roma, il sindaco è un leader nazionale, basta ricordare Rutelli e Veltroni.  Al momento l’ipotesi non è all’ordine del giorno, perché l’arma da fine del mondo richiede, appunto, la fine del mondo. C’è solo l’inizio di una lunga partita a scacchi, in attesa della mossa del cavallo.

L’HUFFPOST

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