Il voto negli Stati Uniti e l’America che serve all’Europa

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di   Angelo Panebianco

Nelle elezioni il cui esito influenzerà i destini del mondo per molti anni a venire, niente appare più scontato man mano che avanza la campagna elettorale. Il candidato democratico Joe Biden è ancora in vantaggio (stando ai sondaggi) ma il presidente uscente Donald Trump è in recupero. Forse, almeno in parte, perché le rivolte urbane di questi mesi hanno spaventato molti elettori. Per aver chiaro quale sia la posta in gioco servono due premesse. La prima è che un europeo, posto di fronte alle elezioni statunitensi, dovrebbe solo chiedersi quale sia, per noi europei, l’esito migliore. Non lo comprendono, nel Vecchio Continente, né quelli che tifano Trump perché si sentono ideologicamente vicini a lui né quelli che gli preferiscono Biden per la stessa ragione. La seconda premessa è che chi apprezza l’ordine liberale (la democrazia rappresentativa, l’economia di mercato, le libertà civili) che vige nel mondo occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale è tenuto anche a sapere che quell’ordine può perpetuarsi soltanto se sono presenti certe condizioni culturali, sociali, economiche. Ma anche geopolitiche: le scelte future degli Stati Uniti influenzeranno le sorti dell’ordine liberale occidentale, contribuiranno alla sua perpetuazione oppure al suo dissolvimento. Qualcuno sostiene, con ragione, che, contrariamente a ciò che molti dicono, la politica estera (l’unica di cui qui mi occupo) di Trump non è solo un insieme di sbagli.

Ci sono ambiti nei quali Trump ha rimediato a errori del suo predecessore Barack Obama. Per esempio, il duro confronto di Trump con una Cina che per troppo tempo ha giocato a sfruttare (e gioca tuttora a sfruttare) le debolezze del mondo occidentale, non merita di essere trattato con disdegno: nel rapporto fra Occidente e Cina c’è un problema reale e Trump ha avuto il merito di sollevarlo e di agire di conseguenza. Sempre a merito di Trump si può citare la svolta in Medio Oriente su un crinale delicatissimo: il nuovo posizionamento degli Stati Uniti (che poi è un ritorno all’antico) rispetto alla divisione fra musulmani sunniti e sciiti. I suoi due predecessori — Bush con la guerra in Iraq che liberò la maggioranza sciita del Paese dalla tirannia di una minoranza sunnita, e Obama con il trattato sul nucleare con l’Iran — avevano scelto di dialogare con gli sciiti a scapito della più antica e tradizionale alleanza con il mondo sunnita. Valutato alla distanza, questo rovesciamento di alleanze non sembra avere generato i benefici che ci si poteva attendeva, non è servito a dare più stabilità alla regione né a mettere definitivamente fuori gioco il jihadismo sunnita. Né ha ridotto le minacce all’esistenza di Israele. Invece, la politica di Trump sembra aver dato alcuni importanti frutti: il più spettacolare riguarda il contributo alla normalizzazione dei rapporti fra Israele e gli Emirati arabi (cui si è aggiunto ora il Bahrein), un evento che può anticipare ulteriori avvicinamenti fra Israele e le potenze sunnite (Turchia esclusa). Nemmeno il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump, che tanto scandalizzò a suo tempo gli europei, ha impedito questa positiva evoluzione.

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