Toh, abbiamo un governo saldo
C’è un dato storico, non solo tattico, in questo passaggio che, proprio per la sua entità, squaderna la crisi politica, strategica di un pezzo del sovranismo nazionale. Per la prima volta, nonostante la bestiale macchina di propaganda leghista, sotto i tweet del leader della Lega compaiono commenti che colgono l’essenza delle dichiarazioni di questi giorni di Matteo Salvini, gergali ma efficaci, come la parola “rosicone”. Nelle dichiarazioni di chi, sempre e comunque, deve andare contro, anche di fronte a risultati rilevanti per il paese prima ancora che per il governo, c’è l’incapacità di un cambio di passo e il paradosso di un sedicente campione della sovranità nazionale che si appiattisce su uno spartito anti-italiano. Posizione resa ancor più paradossale dopo che il suo omologo europeo Orban, proprio in ossequio al principio dell’interesse nazionale, si è trasformato momentaneamente e per motivi tattici in un alleato di Conte nell’ambito del duro negoziato.
Quella di Salvini è qualcosa di più di una “sconfitta” contingente, è la difficoltà di fondo di un leader incapace di aggiornare la sua strategia all’evoluzione della situazione concreta. La verità è che, sin dalla sospensione del patto di stabilità, l’Europa ha posto in essere una serie di iniziative che smontano la narrazione di una costruzione politica matrigna, egoista, rigorista, lontana dai popoli, governata dai burocrati e dalla finanza. Il nemico da abbattere è diventato una risorsa e questo elemento è stato introiettato non solo dalle elite e dall’establishment, ma anche a livello di sentire comune.
Da oggi ci sono tre destre, perché la vera novità non è solo Berlusconi, il cui atteggiamento “responsabile” sui dossier della politica europea è agli atti da tempo, ma Giorgia Meloni che, proprio sul recovery fund, ha declinato il concetto di interesse nazionale da difendere in modo molto diverso rispetto al leader della Lega. Il che, come evidente, rende palese l’assenza di un’alternativa credibile e compiuta al governo in carica. Diciamo le cose come stanno: questa vicenda chiude, in modo brusco e radicale, tutte le ipotesi, gli spifferi e i sospiri attorno a una eventuale crisi di governo, perenne sottofondo del dibattito politico italiano. Perché l’alternativa è impotabile. E perché non si è mai visto al mondo che un governo entra in crisi quando ci sono, sia pur in prospettiva, ingenti risorse da gestire per ricostruire il paese.
Resta aperto, invece, proprio il tema al centro del colloquio al Quirinale: l’urgenza di una visione e di un’idea di cambiamento profondo del paese, a proposito del quale il premier ha parlato, ancora una volta, di una task force, stavolta per il “rilancio”. E resta il tema dell’autunno, perché la disponibilità delle risorse non è immediata e l’enfasi sulla “valanga di soldi in arrivo” rischia solo di eccitare le aspettative di un paese stremato dalla crisi, senza avere ancora la cassetta degli attrezzi per affrontarla. Il che equivale, tra le altre cose, a dire Mes, che peraltro ha meno “condizionalità” del recovery fund per cui servono tempo e riforme vere in cambio, efficaci e strutturali. La tentazione di Palazzo Chigi di rinunciare a un antipasto subito perché ci sarà una grande abbuffata domani rischia già di incagliare di nuovo la discussione sull’interesse nazionale nelle secche del dibattito nostrano. Disvelando che è più facile domare Rutte che Di Battista e i feticci ideologici pentastellati.
L’HUFFPOST
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