L’avanzata dello Stato e la stagione incompiuta delle privatizzazioni

La madre di tutte le privatizzazioni

Le risposte sono tante e rimandano anche agli errori che i fautori della transizione anglo-sassone hanno commesso e non avrebbero dovuto. Si è venduto prima di liberalizzare e così si è finito per far cassa, mentre Margaret Thatcher si era mossa esattamente al contrario. Così la madre di tutte le privatizzazioni, quella della Telecom, non si è rivelata una gran genitrice e oggi il responsabile economico del Pd, Emanuele Felice, propone di riportarla anch’essa nell’alveo dello Stato. Non parliamo di Autostrade: in un business a monopolio naturale lo Stato recita troppe parti in commedia e non siamo riusciti a scrivere una sceneggiatura che separasse gli interessi, tutelasse gli utenti, evitasse di regalare ai privati una rendita e assicurasse gli investimenti di manutenzione. Il crollo del Ponte Morandi ha fatto il resto. Dimostrando come il capitalismo italiano avesse definitivamente perso la sua grande occasione, con una sola eccezione: aver portato la cultura dei mercati finanziari in Eni, Enel e Finmeccanica ha irrobustito le società, non le ha indebolite.

L’iniziativa dal basso

Consci di aver lasciato passare l’autobus a due piani di Cavazzuti a un certo punto ci siamo illusi di poter supplire a quel progetto con l’italianissima iniziativa dal basso. Meno anglosassoni e più nordestini. L’imprenditore che fa da sé è diventata la bussola e se prima della pandemia eravamo ancora la seconda manifattura d’Europa lo dobbiamo proprio a quello slancio, a tratti pionieristico. Il nostro capitalismo negli anni Dieci dalla tradizionale piramide è diventato più simile a un trapezio, poche grandissime imprese e un ampio lato superiore popolato di tante multinazionali tascabili, come dalla mirabile definizione che Peppino Turani scolpì per l’azienda di elettrodomestici di Vittorio Merloni. Il privato ha supplito alla nascita di un mercato finanziario con il dinamismo dei territori, la straordinaria avanzata dell’export, la nascita delle moderne filiere, in definitiva con una forma di capitalismo leggero molto aperto alla competizione internazionale. Il limite di questo modello stava e sta in primis nella dimensione: in un mondo nel quale i settori tendono comunque a consolidarsi, quando scatta l’ora X, per comandare i mercati devi raddoppiare di taglia in un colpo solo e per gli italiani l’operazione equivale a scalare l’Everest. Bene che vada, in caso di fusione tra uguali, i nostri si devono inerpicare lungo tortuose strade di mediazione per poi misurare con il bilancino pesi azionari e governance, come dimostrano i casi Luxottica e Fca. Questo modello ha retto tutto sommato alla tempesta iniziata nel 2008 perché, come ha documentato l’ultima relazione annuale dell’Istat, durante la Grande Crisi è diminuito il numero delle industrie (-7%) ma è aumentata la generazione di valore aggiunto (+3,3%). Abbiamo ceduto senza colpo ferire ai cinesi le lavorazioni “basso di gamma” (comprese le mascherine) e ci siamo dedicati con soddisfazione alle nicchie del bello, benfatto e costoso. La forza di questo modello italianista consisteva anche nella sua pressoché totale autonomia dalla politica visto che, basandosi per lo più sugli scambi internazionali, poteva solo temere che un governo pasticcione ci portasse fuori dall’euro in nome della svalutazione competitiva. E fortunatamente non è stato così.

L’urto della pandemia

Ora non sappiamo come il capitalismo leggero saprà reggere all’urto imprevisto della pandemia: pesa il deficit di investimenti materiali e immateriali, la digitalizzazione è a macchia di leopardo, le limitazioni alla mobilità tarpano le ali all’export, nei negozi milanesi non ci sono più arabi e russi e anche nella migliore meccanica rischiamo di diventare un sistema di sola fornitura. Ma sappiamo che il virus ha rafforzato ovunque il ruolo degli Stati ovvero del “capitalismo politico” – basta pensare ai prestiti garantiti dalla Sace ai grandi privati – e se questa tendenza finisce, come da noi, in dote a governi che diffidano dell’impresa, amano esibire i capri espiatori e praticano il populismo delle tariffe, il cerchio si chiude. E’ quanto sta avvenendo in Italia, dove abolire la povertà e abbattere i Benetton è diventato il programma da esibire in favore di telecamere. Il guaio per il contribuente italiano – quello che alla fin della fiera è comunque l’azionista di maggioranza del capitalismo politico – è che questa tendenza precipita in un momento in cui la macchina pubblica, mai come prima, appare priva delle competenze necessarie per impostare una politica industriale degna di questo nome. Lo dimostrano lo stato pietoso in cui è stato ridotto l’ex ministero dell’Industria e le cento commissioni che il governo fa nascere ogni volta che deve affrontare un rebus, sciogliere un nodo. Ed è in queste condizioni che la politica finisce per teorizzare la quotazione in Borsa della nuova società Autostrade obbligandola però a non essere “assoggettata alle logiche di mercato”. Ovvero a nuotare con le braccia legate. Auguri

CORRIERE.IT

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