Gli Stati Generali sono finiti: e ora? Ecco i piani emersi dal confronto

Riduzione Iva, i dubbi di Bankitalia. E Conte: «Soluzione per breve periodo»

di Redazione Economia

Quanti soldi servono per arrivare a fine anno?

È la domanda che assilla di più il ceto politico oggi, con buona pace dei discorsi di grande respiro sul futuro che si sono fatti a Villa Pamphilj.
Prorogare la cassa integrazione dovrebbe costare almeno 4 o 5 miliardi al mese. Ciò comporta che già solo la copertura della cassa integrazione almeno fino a fine anno richiesta da vari esponenti di M5S avrebbe costi ben superiori ai dieci miliardi di nuovo «scostamento» (cioè deficit in più) di cui si sente parlare in questi giorni.
Di certo serviranno poi almeno altri 3 miliardi per i comuni, le cui entrate in alcuni casi sono letteralmente collassate.
Infine ci sono da sostenere le regioni sulla spesa sanitaria e c’è da rimpinguare il Fondo di garanzia sul credito bancario piccole e medie imprese. L’aumento di dotazione del fondo finora è stato di 7 miliardi (con il decreto Liquidità); la richiesta di finanziamenti garantiti è stata di 37,3 miliardi da metà marzo ma essa è destinata a salire ampiamente a tre cifre. Dunque anche qui serviranno più fondi. L’aumento ulteriore del deficit da varare potrebbe finire per essere di ben più di 10 miliardi, se il governo decide di far fronte a tutte queste esigenze. Di conseguenza il deficit stesso salirebbe ben oltre l’11% del prodotto lordo oggi previsto dalla Commissione europea (e il debito oltre il 158%).

Useremo il Mes?

Affrontare tutte queste priorità senza chiedere il prestito a tassi zero da 37 miliardi al Meccanismo europeo di stabilità – di fatto senza condizioni – rischia di essere molto, ma molto difficoltoso. Ma si capirà qualcosa di più nelle prossime settimane.

Tagliare le tasse?

Esponenti di governo e della maggioranza intanto fanno un gran parlare di ridurre la pressione fiscale. Non solo l’Iva, ma anche il «cuneo fiscale» (la differenza fra costo del lavoro e importi netti in busta paga), attraverso una riduzione del prelievo su certi scaglioni dell’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Possibile? Non a qualunque costo. Aver portato gli incentivi da ristrutturazioni immobiliari (ecobonus) al 110% dei costi sostenuti dalle famiglie e aver fatto saltare dagli anni prossimi le clausole di salvaguardia – aumenti già legiferati dell’Iva – aumenta strutturalmente di circa 35 miliardi l’anno il deficit. Cioè, di per sé, lo aumenta del 2% del Pil, facendo sì che la base di partenza del deficit l’anno prossimo sia il 6%. L’Italia parte già da una posizione di finanza pubblica profondamente squilibrata, con una prospettiva di ulteriore aumento del debito quando lo Stato dovrà attivare le garanzie promesse sul credito alle imprese che non riescono a ripagare le banche.

La tregua sui mercati

Gli interventi massicci della Banca centrale europea assicurano per ora che questi squilibri di finanza pubblica non producano una crisi sui mercati. Ma davvero non ci sono più limiti a quanto debito pubblico è possibile fare? I rendimenti dei titoli italiani sono bassi (1,30% sul debito a dieci anni), dunque è bassa l’apparente percezione fra gli investitori del rischio di un’insolvenza dello Stato. Ma il fatto che da giorni l’Italia debba offrire al mercato rendimenti persino più alti di quelli della Grecia – dunque i più alti d’Europa – segnala che non tutto è a posto. La situazione di finanza pubblica resta fragile e gli investitori lo capiscono. Non tutte le (mezze) promesse di sgravi e tagli alle tasse potranno essere mantenute. Non senza riforme in parallelo, dalla burocrazia alla giustizia civile, che permettano al Paese di crescere di più quando uscirà da questa crisi.

Banche e Stato

Convitato di pietra di Villa Pamphili, un po’ nascosto negli armadi come il commendatore del Don Giovanni ma ingombrante, è poi il rapporto fra il settore bancario e lo Stato. Anche su quello nei prossimi mesi il governo dovrà decidere come muoversi. In questa crisi gli istituti di credito si sono subito schierati a difesa dello Stato italiano, aumentando fra gennaio e aprile di quasi 40 miliardi la quantità di titoli pubblici italiani nei loro bilanci. In altri termini, hanno sostenuto l’Italia comprandone il debito pubblico (che per loro è un affare anche a rendimenti all’1,3%, dato che le banche si finanziano in Bce a tassi sottozero). Nel frattempo anche lo Stato ha sostenuto le banche, perché a fine anno starà garantendo credito concesso dagli istituti alle imprese per ben oltre cento miliardi. Dunque lo Stato di appoggia sempre di più alle banche e le banche si appoggiano sempre di più allo Stato. Può durare ed è giusto che duri? Un tema all’agenda del governo dei prossimi mesi è l’opzione di ridurre la quota garantita di ogni credito: magari solo il 60%, non più il 100%. Altrimenti le banche potrebbero essere tentate di prestare denaro senza verifiche rigorose (tanto alla fine pagano i contribuenti, se il prestito non viene rimborsato).

I prossimi passi

I temi sonno dunque molti e il tempo scarseggia. Conte punta molto su un accordo europeo sul Recovery Plan entro luglio, anche per potersi garantire un’estate serena sui mercati. Nel frattempo, presumibilmente, il governo pubblicherà alla sezione «trasparenza» del sito della Presidenza del Consiglio dei ministri i dettagli di quanto sarà costata alla fine la maratona degli Stati generali. È partita con un’analisi rigorosa nell’intervento di Christine Lagarde, è finita con Elisa che ha cantato «Luce» in diretta per i ministri. Solo il futuro dirà, ben presto, da quale dei due interventi il governo avrà preso più ispirazione.

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