La politica senza idee e l’alibi dei tavoli

In realtà — come è sempre più chiaro — la Commissione è servita essenzialmente a uno o a tutti i seguenti scopi: a prendere tempo e a fingere di rispondere alla domanda politica divenuta incalzante di fare qualcosa; a mostrare di essere pronti ad ascoltare la «società civile», che fa sempre un buon effetto; infine a profittare del gran numero delle proposte per poi scegliere e adottare quelle più gradite facendole però passare per proposte «tecniche». Insomma la Commissione è stata un espediente.

Così come qualcosa del genere saranno sicuramente gli Stati generali. Anche questi convocati per decidere circa il grande piano di rinascita del Paese ma anche questi — è facile supporlo — convocati apposta per essere una scappatoia più o meno astuta. Solo un Paese come il nostro, tra l’altro, cresciuto con il mito dell’assemblea (dalle assemblee del ’68 a quelle del popolo dei fax, fino a quelle delle Sardine), solo un Paese abituato ai «tavoli» di tutte le concertazioni possibili e immaginabili, può concepire l’idea che alcune centinaia di persone rappresentanti delle corporazioni e dei gruppi d’interesse del più vario genere chiamate a dire la loro praticamente su qualunque argomento, possa portare a stabilire un programma concreto di cose da fare.

Ma se per un verso Commissione, Stati generali et similia servono a nascondere il vuoto di idee da parte di chi governando il Paese qualche idea almeno dovrebbe pure averla, per l’altro verso sono la spia del male forse maggiore del nostro sistema politico. Cioè della sua patologica difficoltà di decidere. In Italia chi è alla testa di qualunque ministero, di qualunque ufficio, di qualunque istituzione pubblica, ha il terrore di decidere. Non già di decidere mance e favori, di dare un posto a questo, una carica a quell’altro, di «fare le nomine». Anzi in generale chi in Italia è al vertice pensa che proprio in ciò consista essenzialmente il proprio incarico. Lo stesso, però, ha il terrore di decidere quando si tratta invece di cose davvero importanti, quando si tratta di scelte strategiche che sono destinate, come è inevitabile, a scontentare gruppi o interessi importanti. Ovvero destinate a scontrarsi contro il sabotaggio più o meno occulto di qualche centro di potere burocratico-amministrativo. Allora il politico italiano, l’alto dirigente, è solitamente preso dalla paura di esporsi schierandosi apertamente da una parte, di compromettersi con un sì o un no, di farsi dei nemici, di chiudersi ogni via d’uscita alle spalle. Il suo sogno è la decisione che vada bene a tutti, che metta tutti d’accordo. E quindi per arrivarci rimandare, rimandare il più possibile, radunare tutti, sentire il parere di tutti, convocare Stati generali i più generali possibile, e fare i salti mortali, escogitare le formule verbali più tortuose e ambigue pur di mettere tutti d’accordo. D’accordo, come si capisce, su decisioni che alla fine, però, non possono che essere quasi sempre pessime perché prese per l’appunto allo scopo di soddisfare le opinioni e gli interessi di chiunque, suddividendo anche le risorse in mille rivoli. Cioè sperperandole.

Fare in modo di essere tutti d’accordo: questa è in Italia l’ideale di democrazia larghissimamente prevalente nel ceto politico, cui anche l’opposizione è sempre istintivamente pronta ad aderire (salvo poi magari ripensarci e sfilarsi, come da ultimo è successo con il centrodestra che solo alla fine ha deciso di non andare ai famosi Stati generali). Un’ideale di democrazia che la figura costituzionalmente evanescente del capo del governo, una lunghissima esperienza di proporzionalismo elettorale e l’obbligo conseguente di governi di coalizione hanno contribuito a rafforzare sempre di più. Con i bei risultati che sappiamo.

CORRIERE.IT

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