Il 28 maggio 1974 Piazza della Loggia, la strage simbolo delle «trame nere»

della lotta tra l’Italia che rivendicava il diritto di una democrazia ancora giovane di crescere senza dover pagare tributi di sangue, come stava avvenendo almeno dal 1969, e le strutture occulte che invece volevano frenare quel percorso. Le coperture e i depistaggi che hanno coperto gli stragisti di Brescia — come quelli degli altri attentati con la stessa matrice — per oltre quarant’anni hanno fatto il resto. Dimostrando che non c’era solo un gruppetto di neofascisti fanatici ed esaltati, dietro quella bomba, ma un disegno molto più ampio, di cui furono artefici apparati dello Stato che di quelle bande nere erano complici e in parte ispiratori.

Solo nel 2017 — a quarantatré anni dal boato — è arrivata la condanna definitiva per due colpevoli acclarati: un capo e un manovale dell’estremismo nero, quest’ultimo a sua volta informatore dei servizi segreti. Nei processi è emersa la prova che i Servizi conoscevano (o erano in grado di conoscere) la verità, e però la occultarono fin dall’inizio, e per i decenni a seguire. Il verdetto finale è giunto dopo due istruttorie che avevano portato solo ad assoluzioni, condite da altri cadaveri gettati sui tavoli dei giudici, come quello di Ermanno Buzzi, un estremista nero bresciano prima condannato e poi fatto ammazzare in carcere da due killer neri come lui, Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. E solo la tenacia di alcuni magistrati, insieme all’ostinazione e alla resilienza dei parenti delle vittime — guidate per questi lunghi quarantasei anni da Manlio Milani, un sopravvissuto per caso alla strage che vide esplodere la moglie davanti ai propri occhi, e affiancate da un agguerrito drappello di avvocati — ha portato al risultato di rompere il dogma delle stragi impunite. Anche per il suo lunghissimo e accidentato iter giudiziario, la strage di piazza della Loggia è paradigmatica di quel lungo tratto di storia d’Italia. Una delle stazioni-chiave della via crucis che il Paese ha attraversato dopo l’uscita dalla guerra e dalla dittatura e la nascita della democrazia repubblicana, sempre afflitta dalla violenza politica che ne ha segnato lo sviluppo. In un clima che, oltre agli eccidi indiscriminati, ha prodotto e nutrito anche il terrorismo selettivo di altre bande armate, rosse e nere.

Responsabile di altre centinaia di vittime. In un altro 28 maggio, nel 1980, nel sesto anniversario dell’eccidio di Brescia, gli aspiranti brigatisti rossi della Brigata XVIII marzo, tutti giovanissimi, uccisero a Milano il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi, mentre usciva di casa per andare al lavoro; un paio d’ore prima a Roma, davanti al liceo Giulio Cesare, i neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari, anch’essi poco più che ventenni (e uno ancora minorenne), avevano ammazzato il poliziotto Franco Evangelista detto Serpico, e ferito il suo collega Antonio Manfreda. L’elenco dei caduti negli «anni di piombo» è lungo e pieno di storie personali, tutte diverse, ma incastonate in un’unica, grande e terribile storia, segnata dalle date di ogni attentato. E nel calendario della memoria, il 28 maggio ha un significato molto particolare.

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