La classe dirigente che serve al Paese

E così, con un capitale umano ulteriormente indebolito, sarà ancora più arduo per l’intero Paese ritrovare la via dello sviluppo senza la quale l’enorme debito accumulato non sarà sostenibile. Ma soprattutto rischieremo di penalizzare, ancora una volta, una generazione di giovani che non ha peso politico, non protesta, pagherà le scelte di necessità delle famiglie meno abbienti e gli errori di padri e nonni. Non è questa la sede per discutere dei ritardi storici nel sistema formativo del Paese. Basti solo dire che destiniamo all’università appena l’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Pochi laureati, alta dispersione scolastica, divari elevati fra Nord e Sud, scarso peso dell’istruzione tecnica e scientifica.

La premessa è servita per tornare all’assunto iniziale. Ovvero a quel «ci salveremo tutti insieme». E richiama la responsabilità nazionale della classe dirigente privata, della parte più ricca e agiata, dell’imprenditoria maggiormente avveduta e internazionalizzata. Quel che rimane della cosiddetta borghesia produttiva ha dato prova di grande generosità personale e aziendale. Non c’è dubbio. Ha, in diversi e lodevoli casi, anticipato e integrato la cassa integrazione quando le aziende sono state costrette ad usarla. Allargato le maglie dei welfare aziendali. Ma manca qualcosa. Manca l’assunzione di un progetto per il Paese. Sulle proprie spalle, non su quelle dello Stato di cui si teme, giustamente, un eccessivo allargamento proprietario e assistenziale o a carico di una politica accusata di incompetenza e avventurismo. Una classe dirigente privata all’altezza del compito che la storia le assegna non può limitarsi (giustamente) a premere per riaprire le fabbriche e invocare aiuti di vario tipo o guardare con ansia a Bruxelles. Deve fare di più. Mostrare di avere una cultura più profonda del bene pubblico (common goodsdirebbero gli anglosassoni spesso chiamati ad esempio). La filantropia oggi non basta e a volte non sfugge alle regole scivolose del marketing.

E allora che cosa potrebbe fare? In uno scenario ideale mi piacerebbe vedere una decina di grandi imprenditori (e sono sicuro, conoscendone molti, delle loro sensibilità personali) condividere un progetto a favore della crescita del capitale umano del proprio Paese. Ed essere promotori di una raccolta di capitali per finanziare un grande progetto, mobilitando family office per i quali l’Italia è un granello dei loro investimenti. Disposti anche ad autotassarsi se necessario. E offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla povertà educativa, il sostegno alla digitalizzazione scolastica, la formazione in generale del capitale umano in aiuto all’istruzione pubblica – la cui centralità nessuno contesta – la crescita di una futura classe dirigente, anche pubblica, di cui oggi scontiamo debolezze e incompetenze. In collaborazione con le non poche istituzioni anche del terzo settore (ad esempio la Fondazione per il Sud sul tema della povertà educativa) che già si prodigano in questa direzione. «Un mecenatismo di massa da parte di una borghesia responsabile e illuminata – sostiene Massimiliano Valerii del Censis – che oltre a farsi perdonare qualche distrazione e disimpegno dimostri che l’Italia per il proprio gruppo o per i propri investimenti non è solo un mercato, un ramo d’attività, ma il proprio Paese». Ed essere, aggiungiamo noi, più credibile nel contrastare una deriva neostatalista e contraria all’impresa che fa leva sulle disuguaglianze crescenti. Contrastando poi la sensazione popolare che chi vive in una dimensione internazionale, ha spesso sede legale e fiscale all’estero (e non esita a chiedere prestiti con garanzia dello Stato), oltre a mandare i figli a studiare fuori, non abbia a cuore i destini dell’istruzione pubblica. Al pari di quello che è accaduto con la sanità pubblica. Si consolida così – come nota Remo Lucchi di Eumetra – la sensazione di una estraneità di fondo di chi è internazionalizzato e guarda più al mondo. Italiani solo quando fa comodo.

La storia del nostro Paese insegna che i temi del capitale umano e della formazione della classe dirigente – in definitiva della qualità di chi ci governa – sono sempre stati al centro dei pensieri di personaggi illuminati. Franco Amatori ricorda, in un suo saggio sull’Iri (esempio oggi di gran moda) che già nel 1936 Alberto Beneduce voleva destinare il 10 per cento dell’attivo alla formazione della dirigenza sia privata sia pubblica. Non solo dell’Iri. E nel 1972 uno degli ultimi atti di Raffaele Mattioli fu la costituzione (insieme a Valiani, Isella, Rumi, Decleva, Cingano e altri) di un’Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita. Sandro Gerbi nel suo libro Raffaele Mattioli e il filosofo domato (Hoepli) annota che, a un certo punto, De Gasperi propose al grande banchiere umanista della Commerciale di entrare al governo. Mattioli scartò il Tesoro. Disse che avrebbe accettato solo la Pubblica Istruzione. Il capitale umano contava più del capitale finanziario. «Sì, ma con budget quadruplicato». Non se ne fece nulla.

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