Riaperture, il peso della responsabilità in questa prova decisiva

Ricominciare bisogna: i decreti Cura Italia, Liquidità e Rilancio, indispensabili e farraginosi, spesso preda delle lentezze della burocrazia, nulla potranno nel lungo periodo se non riparte la produzione. Ma far ripiombare il Paese nell’incubo dal quale cominciamo faticosamente a uscire sarebbe criminale. Troppe cose, alla vigilia, non sono come ci erano state prospettate. Abbiamo imparato a conoscere termini nuovi, a cominciare dalle tre T: tracciamento, tamponi, test; ma non sappiamo che fine abbiano fatto. La App, indispensabile per seguire la linea del contagio e per decidere chiusure immediate lì dove fosse necessario, non è ancora in funzione. Coniugare la sicurezza e la privacy in una democrazia è cosa complicata, ma pasticci e ritardi hanno aumentato e non diminuito i dubbi nelle persone: la App non funzionerà se saranno in pochi a usarla. La logica sul numero dei tamponi che si fanno continua a sfuggirci e non ci si libera dal sospetto che se ne facciano pochi per esorcizzare il problema. I test sierologici sono ormai piombati nell’anarchia totale, non c’è una programmazione per le imprese, non si sa chi deve pagarli o ogni quanto sarebbe bene farli. Le mascherine sono finite nel regno del fai da te. Sui trasporti abbiamo alzato le mani: vista l’incapacità di sfalsare gli orari e dopo qualche esperimento fallito per distanziare i passeggeri ci si affida agli autisti per impedire la ressa: andrà bene solo se, ancora una volta, saranno gli italiani a darsi regole. Governo, imprenditori e sindacati hanno stretto un buon accordo per la ripresa del lavoro in sicurezza, ma anche qui è partito un dibattito surreale sulla responsabilità penale delle imprese in caso di contagio. Abbiamo bisogno che le regole siano rispettate e che i controlli siano inflessibili, obbligando a chiudere chi non tutela la salute, ma non possiamo pensare di sconfiggere il virus in tribunale, altrimenti le prime a non riaprire mai più sarebbero proprio le scuole e le università. Il virus ci obbliga a fare le cose insieme. Abbiamo visto tutti quanto ci siamo fatti male quando ci siamo scontrati, le liti di ieri dimostrano che non abbiamo imparato. Il tempo delle furbizie è finito, la ripartenza in sicurezza è un dovere, il primo che dirà: «non è stata colpa mia», sarà il colpevole. Lunedì 18 maggio è un giorno decisivo ma ancora più importante sarà un mercoledì, quello del 3 giugno. Se saremo riusciti a contenere il contagio quel giorno finirà l’isolamento delle regioni, si potrà ricominciare a viaggiare in tutto il Paese. È la vera prova di unità nazionale.

Un primo esame lo abbiamo già passato, quando tutti hanno accettato di chiudersi dentro, anche in quelle città dove il virus è stato meno feroce. Ma era più facile, si trattava di difendersi. Da qui al 3 giugno capiremo se siamo in grado di convivere con il virus e dovremo avere il coraggio di rallentare là dove dovessero presentarsi delle crisi. Sarebbe però incivile pensare di trasformare le proprie regioni in isole, decidendo quali italiani possono entrare e quali no. Senza contare che chiudere una porta oggi potrebbe voler dire trovarla chiusa domani.

CORRIERE.IT

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