A digiuno di scienza

È vero, la pandemia ha spazzato via l’idea secondo cui la scienza sia solo un’opinione fra le altre. Tutti sono (siamo) ora disposti ad ascoltare gli scienziati (i virologi in primo luogo), tutti ora sappiamo che non c’è da scherzare, qui si tratta di vita o di morte: è chiaro a tutti che il parere del virologo non può essere messo sullo stesso piano di quello di chi fa altri mestieri.

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Ma questo ha reso finalmente più maturo il rapporto fra gli italiani e la scienza? È venuta meno (provvisoriamente?) l’ideologia dell’uno vale uno, della scienza come opinione fra le altre e questo è certamente un bene. Ma i fraintendimenti non sono affatto finiti. Perché è rimasta in piedi l’idea altrettanto errata della scienza infallibile, della scienza-oracolo. È proprio in nome di questa concezione (anch’essa figlia dell’analfabetismo scientifico) che ci sono quelli che si meravigliano e si scandalizzano perché gli scienziati non sono sempre d’accordo fra loro o perché non sono sempre in grado di fare «previsioni certe». La scienza non è una mera opinione ma non è nemmeno un oracolo. La scienza è un’impresa (fallibile, come tutte le imprese umane) che, come dice il filosofo Karl Popper, procede per «congetture e confutazioni», costruisce ipotesi, le confronta con i dati sperimentali, le scarta o le riadatta alla luce di quei dati o di nuovi dati, elabora teorie che assume come «provvisoriamente» valide, valide finché nuove evidenze sperimentali non obblighino a rivederle o a sostituirle. Né mera opinione né oracolo. Si noti che la stessa capacità previsionale varia da comparto scientifico a comparto scientifico: una cosa è lo studio del moto dei pianeti, altro sono la meteorologia o la sismologia. O la medicina. Varia sempre il grado di attendibilità o di certezza disponibile. Ci sono cose certe, cose certe fino a prova contraria, altre probabili (con gradi variabili di probabilità), altre solo plausibili. Ci sono sempre, contemporaneamente, tante cose che non si sanno ancora. I dissensi fra gli scienziati non appartengono alla patologia del lavoro scientifico ma alla sua fisiologia. Quei dissensi alimentano il pensiero e la ricerca, stimolano la conoscenza scientifica.

D’accordo, in presenza di un pubblico a digiuno di scienza (pronto a passare, come se niente fosse, dall’estremo della «scienza mera opinione» all’altro estremo della «scienza oracolo»), gli scienziati dovrebbero essere prudenti quando usano gli strumenti della comunicazione di massa per rivolgersi all’opinione pubblica. È evidente che non è quello il loro mestiere, e per lo più non conoscono la natura della Bestia, le logiche e le regole della comunicazione. Un pubblico che in ampie sue parti, in un frangente grave, si rivolge agli scienziati nello stesso modo in cui i popoli primitivi si rivolgevano allo sciamano, va nel pallone se gli scienziati si mettono a litigare apertamente come se fossero politici rivali. La ragione per cui si può essere scettici di fronte ad affermazioni del tipo «la pandemia ha fatto capire agli italiani l’importanza della scienza e la sua vera natura», è che veri cambiamenti saranno possibili solo se e quando le istituzioni educative, dalla scuola all’università, si dimostreranno capaci di rimediare alla piaga, antichissima, dell’analfabetismo scientifico. Senza di ciò, probabilmente, finita la pandemia, tanti italiani continueranno a coltivare le solite idee sbagliate.

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