Ristoranti a un passo dal fallimento: «Va bene la distanza, ma ci vuole il contatto umano altrimenti è come un supermercato»

E’ quello dove il 2 novembre del 1975 sedette Pier Paolo Pasolini, poco prima di morire a Ostia. La sera lo servì la mamma di Roberto, Giuseppina, e tutto è rimasto intatto. Quel tavolo e quella sedia sono l’unica certezza del locale. Per il resto si lavora di fantasia: come potrebbe essere alla riapertura, quando potrebbe riaprire, da dove far entrare i clienti e per dove farli uscire. Sono chiusi dai primi di marzo. Non hanno voluto convertirsi con le consegne a domicilio. «Io ero pronto, avevo organizzato tutto ma papà non vuole, dice che il ristorante si fa stando a contatto con le persone» protesta il figlio di Roberto. E’ l’abbrivio per una risposta che non ammette repliche: «Certo, ci vuole il contatto fisico con il cliente altrimenti non è più un ristorante ma un supermercato».

Chi, invece, non ha neanche azzardato un’ipotesi di riapertura è Davide Maria Bornigia, uno dei soci del Piper ossia la casa artistica di Patty Pravo, Renato Zero, Loredana Bertè ma anche il palcoscenico di gruppi che hanno fatto la storia della musica come i Nirvana, i Pink Floyd o i Genesis. Qui i battenti si sono chiusi ancora prima delle varie ordinanze e decreti, il 29 febbraio. Sul pavimento della discoteca ci sono ancora i coriandoli dell’ultima festa. E a qualcuno ancora non pare vero che dopo 55 anni di onorata carriera il locale sia chiuso. «Stamattina ci ha scritto un ragazzo sui social chiedendo “Ma sabato siete aperti?”, uno fuori dal mondo proprio» dice con un sorriso Bornigia. Sarà l’unico dell’intervista perché poi si adombra pensando ai più di cento dipendenti messi in cassa integrazione. Almeno quelli che hanno potuto usufruirne. Non è il tipo da piagnistei però evidenzia un rischio reale: «A marzo abbiamo pagato l’affitto dell’altro locale che abbiamo a Roma, sono diecimila euro, mentre ad aprile abbiamo chiesto di procrastinare. Il problema è che potranno temporeggiare un mese, due, poi ci daranno lo sfratto. Ecco, diciamo che possiamo resistere fino a ottobre dopodiché le nostre attività non hanno più speranza. Quello sarà il momento in cui coloro che hanno liquidità si faranno avanti per rilevare le nostre aziende. E quelli con i soldi o sono stranieri o sono persone che hanno bisogno di ripulire il denaro». Mentre lo dice un signore brizzolato che lo accompagna si fa insofferente. Si chiama Giorgio Tammaro, i genitori sono stati tra i fondatori del Piper. «State parlando di business ma in questo momento a noi il business non interessa proprio niente, noi vogliamo solo sopravvivere» dice laconico.

Per le strade che portano al Pantheon incontriamo Simona Martiradonna, con il fratello possiede lo Sharivari, un locale di quasi mille metri quadrati. Una vicina di casa, una delle poche visto che il quartiere registra solo un 10% di residenti, le sottolinea il fatto che da quando sono chiusi si dorme meglio, senza schiamazzi. Il suo è bar, ristorante e discoteca. Ci lavorano sessanta famiglie, tutte in cassa integrazione. «In realtà non sono arrivati ancora gli stipendi degli ammortizzatori sociali. Ho letto che 2,8 milioni di lavoratori potranno riprendere l’attività, vuol dire che il loro costo sarà tutto sulle spalle delle imprese. Io in queste condizioni non riapro, vorrebbe dire fallire». «Io non riapro» è diventato anche lo slogan di un movimento che si chiama “Insieme Uniti”. Raggruppa imprenditori della ristorazione, della balneazione, delle discoteche e dello spettacolo per i quali «nemmeno quanto stabilito dai decreti emanati dal governo Conte è diventato concreto, vedi la cassa integrazione garantita per il 15 aprile e l’indennità INPS ancora non percepita dai lavoratori». Parla al buio del suo locale raffinato, i contatori sono saltati dopo un’inattività così lunga. In una delle sale affrescate con dipinti del ‘600 cade giù l’intonaco, impolverando tutto attorno. «Guardi, credevo che sarei uscita da questa quarantena con mille idee e una programmazione forte. Mi sono resa conta che qualsiasi cosa faccia è come edificare sulle sabbie mobili, per noi non c’è nessun tipo di considerazione». Il 4 maggio hanno chiesto al prefetto di poter manifestare davanti al Quirinale, distanziati, con mascherine, guanti ma “ancora in piedi».

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