Coronavirus, non dobbiamo mollare troppo presto

L’esperienza storica ci dovrebbe dunque indurre adesso a non allentare la presa, a restare a casa ben oltre la conclusione della prima ondata di diffusione del contagio. Del resto, è quello che saggiamente sta facendo la Cina prolungando l’isolamento di Wuhan. La memoria del passato dovrebbe imporci altresì, di non affrontare fin d’ora il tema delle responsabilità politiche per qualche trasandatezza iniziale nel modo in cui è stata affrontata l’epidemia. Per quel genere di bilancio, che andrà fatto nei modi meno autoindulgenti, il tempo verrà più in là, quando potremo giudicare i comportamenti della prim’ora in spirito di obiettività e soprattutto avendo l’opportunità di metterli a paragone con quelli di capi di Stato, di governo e ministri degli altri Paesi trovatisi nelle nostre stesse condizioni. Non è questo il momento delle ripicche e i leader dell’opposizione farebbero bene a rinviare di qualche mese il tempo in cui avranno l’occasione e troveranno il modo di esporre i loro rilievi.

Né appaiono queste le settimane più adatte per impostare quello che molti hanno già battezzato il «nuovo dopoguerra». Prese le misure fondamentali per mettere in salvo la nostra economia per tutto il resto è troppo presto: ancora non sappiamo in quali condizioni arriveremo (noi e tutti gli altri Paesi contagiati) al suddetto «dopoguerra» e da dove saremo costretti a ripartire. Quel che è certo — e anche qui vale l’insegnamento del passato — è che sempre (sottolineo: sempre) il periodo successivo a un tal genere di catastrofi, guerre comprese, ha consentito alla nostra civiltà salti fino al giorno prima neanche immaginabili.

Quel che invece possiamo e dobbiamo fare fin d’ora è fermarci a riflettere sulle colpe accumulate nel nostro rapporto con la scienza. Ci capita in questi giorni di ascoltare appelli a «fare presto» nella corsa ai vaccini, esortazioni che vengono da forze politiche — di governo e di opposizione — che fino a ieri hanno flirtato con il cosiddetto «popolo no vax». Niente da dire? Nessuna autocritica? Siamo in un certo senso obbligati pressoché quotidianamente a cercare lumi da una scienziata di prim’ordine, Ilaria Capua, forzata ad andarsene dall’Italia dopo una campagna giudiziaria e giornalistica che l’ha indotta dapprima a lasciare il seggio parlamentare e poi a trasferirsi negli Stati Uniti senza che, una volta assolta, nessuno (o, comunque, troppo pochi) si sia mai sentito in dovere di chiederle scusa. Niente da dire, neanche oggi? Siamo reduci da anni e anni di una campagna (coronata da successo) per porre limiti alla sperimentazione sulle cellule staminali a dispetto del fatto che tali cellule, come non si stanca di ribadire la scienziata svedese Malin Parmar una riconosciuta autorità in questo campo, sono scarti della fecondazione in vitro, non sono mai state nel ventre di una donna ma sempre all’interno del frigorifero di un laboratorio. Potremmo tornare sull’argomento?

Adesso, infine, tutti ci sentiamo impegnati nella gara contro il tempo per trovare un rimedio immunizzante dal Covid-19, competizione in cui è coinvolta anche la Irbm di Pomezia che già si distinse nel mettere a punto il vaccino anti Ebola. Lavorando in collaborazione con l’istituto Jenner dell’Università di Oxford, la Irbm annuncia che già a maggio verrà avviata la sperimentazione sui topi e, dopo l’estate, si passerà all’uomo. I topi, sì. Se poi si osserva questo genere di esperimenti in altri laboratori di tutto il mondo, si nota come vengano utilizzati anche altri animali. A questo punto c’è la senatrice a vita, Elena Cattaneo, che, inascoltata, ci ricorda come da sei anni ai nostri ricercatori si cerca in ogni modo di impedire per legge l’impiego di animali negli studi su «sostanze d’abuso e xenotrapianti». Ci esorta, Elena Cattaneo, a non essere ipocriti e a tener presente che senza sperimentazione sui topi oggi non avremmo insulina orale, statine, farmaci contro la depressione; senza conigli e bovini, nessun vaccino contro il cancro della cervice uterina; senza scimmie, niente stimolazione cerebrale profonda per il Parkinson, niente neuro-prostetica per consentire a pazienti con lesioni spinali o sclerosi laterale amiotrofica di muovere arti altrimenti paralizzati, né vaccino contro epatite B, poliomielite o Ebola; senza conigli e maiali non ci sarebbero risonanza magnetica, pacemaker o dialisi renale. È presto per parlare del dopo. Ma possiamo approfittare del tempo che ci resta di qui alla fine dell’emergenza per acquisire consapevolezza della necessità di investire nella formazione e nella ricerca scientifica. Consentendo a quest’ultima il massimo della libertà così da non doverci sentire eccessivamente in colpa la prossima volta per essere stati colti di sorpresa. Come è accaduto adesso.

CORRIERE.IT

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