Nomine, come funziona la guerra del potere: da Eni alla Rai ecco i candidati dei partiti

LA POLITICA CHE COMANDA
Partiamo dai king maker, cioè dai politici e i loro dante causa che danno le carte al tavolo da gioco. Per i Cinque Stelle, deliberano solo Fraccaro, Luigi Di Maio e (con meno peso di un tempo) Davide Casaleggio. Stefano Buffagni – nel Conte Uno indiscusso principe delle nomine grilline – ha perso quota, soprattutto a causa delle sue coerenti simpatie leghiste. Nell’ultima infornata di manager in Cassa depositi e prestiti non c’è nemmeno un neo consigliere a lui riferibile: amministratori delegati, aspiranti tali e lobbisti assortiti l’hanno capito, e ormai bussano quasi esclusivamente alla porta di “Ric”, come chiamano Fraccaro alcuni funzionari e dirigenti d’azienda che fino a due mesi fa non sapevano nemmeno chi fosse.

Spesso “Ric” non li riceve, ma li fa parlare prima con il suo consigliere economico Antonio Rizzo: ex testimone chiave dell’inchiesta su Monte dei Paschi e un tempo dirigente alla Dresdner Bank, Rizzo in passato ha scritto sul sito del Fatto Quotidiano articoli economici con lo pseudonimo di “Superbonus”. Evidentemente sono stati apprezzati dal sottosegretario grillino, che a settembre lo ha voluto con se a Palazzo Chigi.

I pentastellati, forti della loro cospicua pattuglia parlamentare, chiedono la fetta maggiore di posti di rilievo. Ma in realtà è il Partito democratico che farà la parte del leone nella spartizione delle spoglie. Dopo la vittoria in Emilia Romagna e il crollo dei grillini a percentuali minime sui territori, Nicola Zingaretti e Dario Franceschini non hanno chiesto rimpasti nel governo né poltrone da viceministri o sottosegretari. Adesso però pretendendo molto spazio nelle partecipate di Stato. Una strategia non banale, visto che alcune aziende hanno un peso specifico superiore a quello di molti dicasteri.

Chi dà le carte nel Pd è, in primis, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. L’ex europarlamentare per scegliere i nomi giusti si interfaccia non solo con Zingaretti, ma anche con Massimo D’Alema, consigliere ombra di Leu che il successore di Quintino Sella conosce e stima da sempre. Gualtieri ha messo sul dossier i suoi giannizzeri: sono Ignazio Vacca (ex dirigente di Poste e ora capo della sua segreteria, Ignazio è figlio del filosofo Giuseppe, anima della Fondazione Gramsci nel cui board siedono sia Gualtieri sia D’Alema), il direttore generale del tesoro Alessandro Rivera (che ha la delega sulle partecipate) e il vice capo di gabinetto Andrea Baldanza.
Zingaretti di nomine discute direttamente con Fraccaro (i rapporti tra i due sono ottimi), ma la prima selezione è mediata anche da altri democrat. Come il viceministro Antonio Misiani, presente ai due incontri finora avvenuti nell’ufficio del grillino, e Claudio Mancini. Vicino a Matteo Orfini, il deputato ha lavorato in passato con Soundreef e risulta dal 2016 socio unico di una società di consulenza, la Face Consulting.

Il segretario, naturalmente, chiede più di un consiglio anche al suo mentore Goffredo Bettini, abilissimo da sempre a muoversi dietro le quinte del potere influenzando scelte e strategie. Stavolta qualcuno sostiene che potrebbe essere lui stesso nel mazzo dei nominati, non disdegnando la poltrona di presidente dell’Istituto Luce Cinecittà (controllato al 100 per cento dal Mef), lasciata libera da Roberto Cicutto, scelto da Franceschini per guidare la Biennale di Venezia.

TRA RENZI E CONTE
Si vedrà. Certamente piddini e grillini stanno facendo i conti anche con gli appetiti di Italia Viva. Matteo Renzi ha negato qualsiasi interesse alle poltrone («se le tengano, noi ci teniamo i nostri valori», ha chiosato durante le polemiche sulla prescrizione), ma nell’ufficio di Fraccaro è un habitué anche Ettore Rosato, il presidente del partito e fedelissimo dell’ex rottamatore delegato al mercato delle nomine.

Finora Renzi nel suk s’è mosso come sempre alla grande: non solo è riuscito nella mission impossible di rimettere Ettore Maria Ruffini a dirigere l’Agenzia delle Entrate, ma ha già piazzato a dicembre Federico Lovadina in Sia spa. Non una società qualunque, ma uno dei big europei dei pagamenti elettronici e digitali, controllata da Cassa depositi e prestiti. Socio di studio di Francesco Bonifazi e del fratello di Maria Elena Boschi, l’avvocato Lovadina (già in passato piazzato dai renziani nei cda di Ferrovie dello Stato e Toscana Energia) secondo i maligni è diventato presidente di Sia a sua insaputa: pare che nessuno sapeva che Matteo aveva indicato la sera prima a Fabrizio Palermo, ad della Cassa, il nome del suo pupillo.

Renzi, al tavolo di Fraccaro, spinge per favorire altre tre pedine che considera cruciali. Ha già chiesto la riconferma (come già scritto dall’Espresso lo scorso settembre) di Francesco Starace all’Enel, che sembra ormai scontata. Poi spera nel rilancio di Renato Mazzoncini, ex ad di Ferrovie dello Stato, che vorrebbe come nuovo numero uno di Rfi. Infine, il senatore semplice di Scandicci sponsorizza per una presidenza di peso (Poste Italiane?) pure l’avvocato cassazionista Nicola Maione, oggi presidente di Enav, l’ente nazionale che gestisce il traffico aereo civile.

Maione non avrebbe solo l’appoggio di Renzi, ma anche quello di Luca Lotti. Il fratello diverso di Matteo è rimasto nel Pd, ma i due – al netto di chi li racconta lontani e divisi – su alcuni scacchieri sono ancora alleati di ferro. Ma Maione (che è anche consigliere uscente di Mps) risulta essere stato in passato “assistente volontario” di Guido Alpa, maestro e sodale del premier Giuseppe Conte. Così come è notoria la stima che ha per lui Denis Verdini: nel 2014 proprio Maione e Alpa furono incaricati dall’ex forzista e da altri dirigenti dell’ormai fallito Credito cooperativo fiorentino di scrivere un ricorso contro alcune decisioni del commissario liquidatore dell’istituto e della Corte d’Appello di Firenze.

Non è detto, però, che Conte accetti candidature che stravolgano la sua strategia nel domino. Il presidente del Consiglio in una recente riunione sul tema è arrivato in ritardo e non ha consegnato alcun nominativo, ma ha fatto intendere agli astanti che non soltanto valuterà singolarmente la bontà dei candidati, ma che una fetta della torta spetterà anche a lui.

Se una folla di aspiranti consiglieri e funzionari bussa allo studio Alpa sperando in qualche segnalazione a Palazzo Chigi, i big a caccia di riconferme o posti in paradiso parlano direttamente con lui: l’ex avvocato del popolo le faccende delicate le gestisce in prima persona. Senza intermediari. «Se chiedi un appuntamento, il premier trova sempre il tempo entro una settimana massimo», chiosa soddisfatto un lobbista.

Nel cuore del professore ci sono alcune poltrone. Tutte di grande peso. Le “top four” che vanno a scadenza sono Poste, Enel, Leonardo ed Eni. Se gli ad delle prime due sembrano in odore di riconferma (di Starace si è già detto, ma anche Matteo Del Fante dovrebbe restare in Poste grazie ai buoni risultati della società), non è un mistero che Alessandro Profumo e Claudio Descalzi, rispettivamente numeri uno dell’ex Finmeccanica e del colosso petrolifero, traballano parecchio.

Roberto Gualtieri
Roberto Gualtieri

Conte, a Leonardo, sogna di portare Domenico Arcuri. Come l’Espresso aveva previsto il manager (che s’è fatto apprezzare anche per il modo con cui ha gestito un finanziamento pubblico da 280 milioni di euro a favore della provincia di Foggia, terra natale del presidente del Consiglio) è stato appena riconfermato ad in Invitalia. Ma, seppure alcuni lo considerano unfit per un salto nella multinazionale degli armamenti, ha più di una chance di fare il colpaccio. Anche perché, oltre al premier, Arcuri è appoggiato anche da D’Alema, che con l’amico Gualtieri al Mef nel domino peserà più di quanto si possa immaginare.

Se il Quirinale darà l’ok (Sergio Mattarella e il suo segretario generale Ugo Zampetti sulle nomine decisive faranno pesare tutta la loro influenza), nuovo capo di Invitalia potrebbe diventare Andrea Viero, che da poco è stato chiamato alla presidenza dell’agenzia specializzata in investimenti. Dirigente vicino a Graziano Delrio, ex Iren, poi arruolato in Fincantieri dall’immortale Giuseppe Bono, la promozione di Viero (da sempre osteggiato dai Cinque Stelle per alcune contestazioni della Corte dei Conti poi evaporate) non dispiacerebbe né a Renzi né a Leu. Né, sorprendentemente, al ministro grillino Stefano Patuanelli.

PER QUALCHE POLTRONA IN PIÙ
Ma Arcuri non è l’unico candidato che sta puntando su Leonardo, nel caso i pochi sponsor rimasti a Profumo (su tutti Paolo Gentiloni) non riescano a farlo confermare. Anche Fabrizio Palermo, capo di Cassa depositi e prestiti, ci sta infatti facendo più di un pensiero. Palermo (che fu nominato grazie ai buoni uffici con Buffagni e alla stima di Luca Lanzalone, che prima dell’arresto per la vicenda dello stadio della Roma aveva grande peso nelle nomine targate M5S) sa che deve riposizionarsi rapidamente. Non solo perché a Leonardo guadagnerebbe molto di più, ma perché tra un anno, quando scadrà il suo mandato, potrebbe trovare tutte le poltrone di maggior pregio già occupate. È difficilissimo, ma per Leonardo Palermo qualche freccia al suo arco ce l’ha: l’appoggio dei grillini, quello di pezzi dei servizi segreti (che in Finmeccanica mettono bocca da sempre), e quello delle fondazioni bancarie azioniste di Cassa. Già: l’ex presidente di Acri Giuseppe Guzzetti e il suo uomo di fiducia in Cassa, il presidente Giovanni Gorno Tempini, sarebbero favorevoli a un’uscita anticipata di Palermo, perché considerato a torto o a ragione non abbastanza autonomo dalla politica. Che spesse volte chiede alla cassaforte che gestisce i miliardi del risparmio postale di agire non con l’oculatezza prevista dallo statuto, ma come un bancomat di Stato. Per Guzzetti, una sorta di bestemmia in chiesa.

Fosse scalzato da Arcuri o altro pretendente, Profumo non resterà senza lavoro: potrebbe rientrare nel settore privato, dove c’è la fila per accoglierlo, essere spostato proprio a Cdp o finire in Terna. La società che gestisce la rete elettrica potrebbe essere usata come un jolly di lusso dai partiti, per piazzare amministratori uscenti con troppo peso specifico per restare appiedati. «A Terna l’ad Luigi Ferraris ha timonato benissimo la barca, ma il tassello con inciso il suo nome sul tavolo di Fraccaro per ora non c’è» racconta una fonte di Palazzo Chigi. Oltre a Profumo, in lizza per Terna c’è anche Stefano Donnarumma, oggi ad Acea, vicino ai grillini e ormai uscito indenne dall’inchiesta della procura di Roma su Marcello De Vito.

Anche la posizione di Descalzi in Eni non è affatto salda. I risultati operativi sono ottimi, le capacità indiscusse, ma sulla riconferma del manager (invocata da molti paesi stranieri, soprattutto arabi) gravano le inchieste giudiziarie. Dall’imputazione per corruzione internazionale per alcune presunte tangenti in Nigeria, al coinvolgimento dei suoi fedelissimi nell’indagine sui tentati depistaggi messi in piedi da Piero Amara, passando per i rapporti tra il suo braccio destro Claudio Granata con Luca Lotti e la montagna di soldi (310 milioni di dollari) che l’Eni ha girato a una cordata di società africane costituite dalla moglie congolese di Descalzi, per il governo i rischi legati a un suo terzo mandato sono molti. «In qualsiasi altro paese occidentale sarebbe stato costretto a dimettersi da un pezzo», argomentano da tempo i suoi nemici.
I pretendenti alla successione, visto che il colosso energetico nel domino del potere vale quanto tutte le altre aziende partecipate messe insieme, non si contano. Conte però sembra aver un debole soprattutto per Marco Alverà. Il capo di Snam piace anche a Renzi e a pezzi da novanta del Pd, ma per molti altri sarebbe ancora troppo vicino al giro di Paolo Scaroni, l’ex ad di Eni che ha governato per anni il Cane a Sei Zampe grazie (anche) ai consigli dell’amico Luigi Bisignani.

In lizza – ma con meno probabilità di successo – ci sono pure Valerio Camerano di A2A, gradito ai renziani, Stefano Cao e Luigi Gubitosi. Che, come suggerito dallo stesso Bisignani in un articolo sul Tempo, sta cercando un’uscita prestigiosa per lasciare Tim. È un fatto che i suoi sostenitori di sempre, Costanza Esclapon, brava lobbista con un passato alla Rai, e Stefano Lucchini, potente numero uno delle relazioni istituzionali di Banca Intesa, stiano cercando di dargli una mano ( qui la replica di Luigi Gubitosi: resto in Tim ).

In realtà, dentro l’Eni (e al Quirinale) molti tifano per la promozione di un dirigente interno che garantisca continuità: nella lista ci sono in primis Alessandro Puliti e Luca Bertelli, quest’ultimo capace negli ultimi anni di destreggiarsi tra finanza e la scoperta di giacimenti giganteschi.

Se Descalzi si giocherà comunque il tutto per tutto fino alla fine, è praticamente impossibile che Emma Marcegaglia resti sulla sedia della presidenza. Qui in pole ci sono due immarcescibili top player: Franco Bernabé, che piace sia al Pd che a Davide Casaleggio, e Gianni De Gennaro.

Per l’ex superpoliziotto ultrasettantenne, con rapporti a 360 gradi e uomini di relazioni che lavorano per lui notte e giorno (Paolo Messa in primis), l’ipotesi di lasciare l’ufficio di presidente di Leonardo dove staziona da sei anni è fuori discussione. «I partiti lo temono e i poteri forti lo appoggiano: dunque, se Zingaretti e Di Maio non vogliono confermarlo a piazza Monte Grappa, dovranno piazzarlo all’Eni. O dargli un ruolo chiave a Palazzo Chigi, affidandogli le deleghe sui servizi segreti», spiega all’Espresso chi lo conosce bene. Il premier Conte non sembra avere a oggi alcuna intenzione di mollare i suoi poteri su Dis, Aise e Aisi (dove qualcuno punta tutto sulla riconferma di Mario Parente, nonostante qualche grattacapo giudiziario), ed è assai probabile che alla fine De Gennaro resterà fermo al suo posto.
Oltre a Consap, Consip, Sogesid e altre società pubbliche importanti, i potenti che si accapigliano nell’ufficio di Fraccaro devono decidere anche la sorte della Rai e delle agenzie indipendenti. Se l’ad Fabrizio Salini, nonostante i buoni risultati di Sanremo, dovesse essere sostituito, la candidatura più forte a oggi è quella di Paolo Dal Brocco, storico boss di Raicinema, seguito a ruota dalla regina della divisione fiction, Eleonora “Tinny” Andreatta.

A Garante della privacy Conte vuole mettere invece a tutti i costi Giuseppe Busia, attuale segretario generale dell’organismo. Mentre all’Agcom è in pole Roberto Garofoli, civil servant che Gualtieri non ha potuto chiamare come suo capo di gabinetto per l’ostilità feroce dei grillini. Berlusconi, che considera strategica la nomina per Mediaset, preferirebbe Vincenzo Zeno-Zencovich, mentre il M5S ha già chiesto un posto (come consigliere, difficile riesca a spuntare di più) per Emilio Carelli. Potrebbe entrare nel board anche il deputato Pd ed ex sottosegretario Antonello Giacomelli. Garofoli ha un solo, vero autorevole competitor: Roberto Chieppa. Il segretario generale di Palazzo Chigi, assai gradito a Conte, piace anche al Quirinale, e a ottime entrature tra professionisti e potentati assortiti.

I nomi del domino sparpagliati sul tavolo di Fraccaro sono centinaia, e molti sono intercambiabili fino all’ultimo secondo. Per ora nulla è stato deciso, tranne una conventio ad excludendum verso Matteo Salvini. A differenza di Giorgia Meloni che spera di replicare il modello di Raidue (il neo direttore Ludovico Di Meo è stato sponsorizzato da Fratelli d’Italia) e di portarsi a casa qualche poltrona (si parla di Ignazio La Russa alla Privacy, o al posto del candidato Busia o come consigliere) il Capitano della Lega non deve toccare palla. Il potere logora chi non ce l’ha, e senza reti relazionali e burocrati del deep state che sono dalla tua parte, ripetono i piddini più esperti, in Italia anche i politici più popolari difficilmente vanno lontano.

L’ESPRESSO

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