Governo, Renzi teme defezioni: assedio ai senatori di Italia Viva

Renzi quei nomi li conosce. Conosce i sospetti, fondati o meno, che si addensano su di loro. Su Giuseppe Cucca così come su Donatella Conzatti, su Eugenio Comincini così come su Leonardo Grimani, su Gelsomina Vono, forse addirittura su Ernesto Magorno. Molti di loro, nelle ultime ventiquattr’ore, hanno messo nero su bianco delle mezze smentite a mezzo social. Ma la scommessa che l’ex presidente del Consiglio propone all’amico va oltre; e dà la misura, se non di quanto si senta sicuro, di quanto voglia sembrarlo. «Allora, io ti dico che da qui a una settimana Italia viva o avrà gli stessi senatori che ha oggi oppure ne avrà qualcuno in più». Dove per qualcuno si intendono due o tre eletti a Palazzo Madama con cui l’ex presidente del Consiglio giura di avere contatti di diretti, riservatissimi. Già perché non ci sono soltanto i fantomatici «responsabili», in questo incrocio pericoloso in cui si scontrano Renzi e il governo Conte, Italia viva e il Pd, il ministro Bonafede e quella mozione di sfiducia che l’ex premier continua a minacciare. Non ci sono soltanto le ipotesi più disparate, compresa quella che vuole i socialisti di Riccardo Nencini pronti a togliere «il marchio» al gruppo del Senato in cui hanno preso casa i renziani. Ma ci sono anche i possibili «controresponsabili», una manciata di jolly nascosti che il fu Rottamatore dice di essere pronto a estrarre dal taschino.

Renzi, a ragione o a torto, sente di essere all’inizio di una battaglia. L’agenda delle prossime settimane sembra una specie di bollettino di guerra preventivo. Mercoledì andrà a Porta a Porta, a rilanciare anche la minaccia di sfiducia individuale nei confronti del ministro Bonafede. Sabato prossimo, ma è ancora da confermare, potrebbe sottrarre a Maria Elena Boschi il posto nel panel di un convegno nazionale dei Penalisti in programma a Brescia, che ha per oggetto la riforma della prescrizione. «Hanno invitato te, Maria Elena? Bene, forse ci vado io». Poi, il 2 marzo, cambierà terreno di scontro. E darà il via a una grande campagna nazionale contro il reddito di cittadinanza con la quale è sicuro di mettere, se non in difficoltà quantomeno in imbarazzo il Pd. La guerra si combatte in due. E Renzi sa che l’altro fronte proprio fermo non sta. Dario Franceschini avrebbe garantito a Conte che, in caso di elezioni anticipate, l’assetto del centrosinistra correrebbe separatamente con tre punte, pronte a darsi appuntamento in Parlamento subito dopo: il Pd, il M5S e una lista Conte. Nicola Zingaretti, invece, ha minacciato l’estromissione di Italia viva dal bouquet del centrosinistra che spera di ripetere il «miracolo Emilia-Romagna» alle prossime elezioni regionali.

Renzi sembra non temere lo scontro. E giura ai suoi che non mollerà di un millimetro fino a quando non verrà chiamato al tavolo del confronto per chiudere un accordo che blindi la legislatura a cominciare dalla prescrizione. L’altro giorno, un amico gli ha evocato un finale tipo le Iene di Quentin Tarantino: tutti sparano, tutti muoiono e uno solo riesce a scappare. Lui è convinto di avere una contromossa per ogni mossa altrui. Ma perché possa tenere alti gli umori di una truppa in cui si moltiplicano i dubbiosi, ha bisogno di non perdere il suo peso al Senato. E si ritorna ai numeri, ai responsabili e ai controresponsabili, a quelli che lo mollerebbero e a quelli che arriverebbero. In fondo, è un po’ una partita a Risiko. E questa dei senatori, ha confessato ai suoi, «è la mia piccola Kamchatka. Apparentemente conta poco, è piccola. Ma di solito chi la conquista poi vince la partita». Di solito.

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