Coronavirus, un contagiato in Egitto: è il primo caso in Africa

Non c’è retorica nella frase del politico di Pechino. Gli ospedali di Wuhan e dello Hubei da settimane sono un calderone di angoscia e difficoltà logistiche. Il materiale protettivo non basta mai. Neanche la Cina fabbrica del mondo è in grado di produrre attrezzature sufficienti a questo ritmo. Ci sono infermiere che hanno raccontato di avere il volto piagato per le troppe ore passate chiuse nelle maschere e negli occhiali isolanti. E poi, c’è il problema dei pasti, delle mense al collasso per l’ondata di malati e contagiati (60 mila nello Hubei). E c’è l’incertezza su dove andare a riposare tra un turno e l’altro: rientrare a casa esporrebbe i propri cari al rischio d’infezione, restare sempre in ospedale accresce le probabilità di essere attaccati dal virus. Si è costituita una rete di volontari a Wuhan e nello Hubei in quarantena: consegnano pasti in ospedale e danno passaggi in auto verso alberghi che hanno messo a disposizione stanze per il personale ospedaliero. Cittadini senza volto. Hanno un nome e il diritto alla foto sui giornali i sei medici caduti al fronte. Il più giovane aveva 28 anni. Del dottor Jiang, 62 anni, resta un’immagine non formale: mentre spazzava le foglie sul marciapiede davanti a casa. E c’è un settimo nome, nell’elenco pubblicato dalla stampa cinese: Li Wenliang, 34 anni, il dottore di Wuhan che cercò di dare l’allarme il 30 dicembre e fu messo a tacere.

Il virus non ha nazionalità e non ha confini, dicono a Pechino. Ed è arrivato anche in Africa, inevitabilmente. L’Egitto ha annunciato di aver individuato un contagiato, uno straniero. Molti Paesi africani sono impreparati. L’Uganda ha deciso dopo un dibattito parlamentare di non rimpatriare 105 studenti da Wuhan: troppo costoso mandare un aereo e troppo pericoloso riportarli a casa.

CORRIERE.IT

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