La partita politica che si apre ora

Il risultato è comunque positivo, e il merito va a entrambi. Nelle piazze che le «sardine» hanno riempito probabilmente erano presenti elettori di sinistra che avevano ingrossato le file dell’astensione, o in parte si erano mossi verso le forze populiste. È difficile prevedere quale sarà l’evoluzione di una realtà magmatica che esprime esigenze e frustrazioni prima di proposte politiche. Ma se sono state anche loro a far lievitare la partecipazione, il contagio non è arrivato se non in minima parte in Calabria. Lì si è registrato un leggero aumento dei votanti, ma la sensazione è che la regione si sia sentita e sia stata trascurata a livello nazionale. Lo stesso Salvini, ossessionato dalla prospettiva di espugnare la roccaforte storica della sinistra nel nord, ha trattato il voto calabrese come una pratica secondaria: forse perché il centrodestra era sicuro di vincere; e perché la candidata, Jole Santelli, non è una leghista ma una berlusconiana doc.

L’impressione è che simbolicamente la Calabria non fosse abbastanza rilevante per un Carroccio teso solo a delegittimare in ogni modo l’alleanza M5S-Pd. In parte, l’obiettivo è stato raggiunto con l’aiuto involontario dei Cinque Stelle. L’annichilimento del Movimento di Beppe Grillo è il dato più vistoso. Era prevedibile che avrebbe perso migliaia di voti. Ma il risultato è doppiamente umiliante, in Calabria e in Emilia Romagna. Dal punto di vista numerico, si conferma una parabola discendente che rispetto alle elezioni politiche di marzo 2018 mostra un grillismo sovrarappresentato in Parlamento ma in dissolvimento nel Paese. Politicamente, la scelta di presentare liste senza allearsi col Pd lo ha fatto apparire insieme inaffidabile e ininfluente. I Cinque Stelle rischiano di assumere un ruolo, più che marginale, residuale. E certo non ha contribuito alla loro credibilità il passo indietro del leader Luigi Di Maio a tre giorni dal voto. Sotto questo aspetto, la previsione di Salvini sul tracollo del partito di maggioranza relativa in Parlamento si è rivelata esatta. Ma sarà una soddisfazione amara sugli ex alleati di governo, di fronte all’elezione di Bonaccini e alla tenuta della sinistra.

Per il carattere nazionale che soprattutto Salvini e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia hanno impresso alla consultazione, perdere non significa solo una sconfitta. Di rimbalzo può ridare ossigeno a un governo finora asfittico per le sue magagne interne; e incapace di accreditarsi come un‘alleanza politica. E promette di stabilizzare un premier, Conte, che Salvini addita da mesi con epiteti al limite dell’insulto politico; e una segreteria del Pd che, pur giocando una partita in difesa, è riuscita con Nicola Zingaretti a fermare l’onda salviniana in un passaggio decisivo.

La verità è che adesso si apre un’incognita anche sull’identità della destra e sulla sua politica. Se la «strategia della spallata» scelta da Salvini si è trasformata in un boomerang, qualcuno gli chiederà una linea meno elettoralistica e meno estremista. Anche perché sullo sfondo rimane la collocazione europea del suo Carroccio: tema dirimente, sebbene si tenda a sottovalutarlo. Per andare a Palazzo Chigi, la destra di oggi ha bisogno di solide sponde continentali. Ma per ora le ha solo Silvio Berlusconi col Ppe, e Meloni con i conservatori. Si aspetta di capire se Salvini sarà costretto a rivedere non solo la strategia italiana ma le sue alleanze «sovraniste», impresentabili nelle cancellerie europee. Farlo dopo il voto emiliano non aumenterà il suo potere contrattuale.

CORRIERE.IT

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