I rischi della giustizia utilizzata come un’arma

Qualche giorno fa su queste pagine abbiamo pubblicato un articolo di Ian Bremmer sui possibili effetti della vicenda giudiziaria che ha investito il presidente Usa con il «caso Ucraina». Bremmer, esplicitamente ostile a Donald Trump, non si sbilanciava né sul «cui prodest» dell’intricata vicenda politico-giudiziaria, né in pronostici peraltro intempestivi. Quel che più gli premeva mettere in risalto era l’effetto, appunto, «di sistema» dell’eventuale (pressoché scontato) proscioglimento del presidente da parte del Senato in maggioranza repubblicano. Tale proscioglimento – secondo Bremmer – verrà considerato da metà degli americani, gli elettori democratici, come frutto di calcoli politici piuttosto che come esito di una riflessione su «inconfutabili dati di fatto». Certo, un voto pur favorevole a Trump al termine della procedura di impeachment, offuscherebbe «immancabilmente» un’eventuale sua rielezione. Ma le conseguenze di questo complesso passaggio storico saranno probabilmente più rilevanti del caso in sé. Dall’esito della vicenda, Trump, secondo Bremmer, trarrà inevitabilmente la conclusione «che le regole tradizionali della politica statunitense non lo riguardano affatto» e «si comporterà di conseguenza».

Sul versante opposto, nel caso di una conferma di Trump alle prossime elezioni, «i suoi avversari considereranno infamante non solo la sua permanenza a capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, il processo elettorale che avrà portato alla sua rielezione». «Infamante», scrive Bremmer. Nel caso, infine, che dalle urne non venga un risultato incontrovertibile, quasi sicuramente i perdenti non accetteranno «dignitosamente» la sconfitta. E ricorreranno alla Corte suprema, vale a dire a un’istituzione che, prosegue Bremmer, negli ultimi anni si è sempre più politicizzata, talché, nei sondaggi, il numero di interpellati che dice di fidarsene è sceso vertiginosamente: dal 47 per cento del 2000 al 38 di oggi. Se ne può trarre la conclusione che, anche a non voler dare per scontato che quest’anno passi alla storia come quello del «fallimento della democrazia americana», una parte consistente della popolazione statunitense è già fin d’ora predisposta a considerare «truccate» le elezioni del 2020. Con grave nocumento, a prescindere da chi prevarrà, per l’intero sistema.

Dobbiamo dedurne che i democratici americani avrebbero dovuto evitare di caldeggiare la procedura di impeachment nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca? No. Impossibile. Quando prendono il via procedimenti giudiziari che investono un uomo politico, è pressoché inevitabile che i suoi avversari cedano alla malia di cavalcarli allo scopo di trarne profitto. Ma ciò su cui Bremmer attira la nostra attenzione è che gli effetti di queste azioni spesso danneggiano – oltre all’accusato (e non è neanche detto) – anche coloro che prendono parte al gioco nei panni di pubblici accusatori. Da molti anni, quando si discute di tali questioni in tempi tranquilli, cioè non a ridosso né di elezioni né di iniziative giudiziarie, esponenti di ogni tendenza politica, qui da noi ma anche negli Stati Uniti, giurano di aver capito la lezione del passato e promettono che mai più, se un loro avversario avrà noie con la giustizia, cercheranno di approfittarne. Poi, però, quando si presenta l’occasione, i suddetti esponenti dei più svariati partiti – soprattutto se non sono certi di prevalere con le tradizionali armi della politica (sostanzialmente una: la conquista di un maggior numero di voti) – puntualmente ricadono in tentazione. E la prova che si tratta di una ricaduta, cioè di qualcosa che prescinde dalla considerazione del merito di ogni singola questione, consiste nel fatto che il loro voto finale – in Italia, negli Stati Uniti, dappertutto – è in genere unanime per schieramenti, la sinistra tutta pro, la destra tutta contro o viceversa. Una unanimità che, ad ogni evidenza, appartiene più alla logica di partito o coalizione che a quella di una meticolosa valutazione degli accadimenti.

CORRIERE.IT

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