Cambiamento d’epoca



È successo più di duecento anni fa, in realtà, ma come aveva detto il cardinale Carlo Maria Martini, questo è il ritardo accumulato dalla Chiesa nella storia. E infatti l’esclamazione conta per l’oggi. È per rivolgersi al mondo di oggi che il papa, dunque, vicario di Cristo a capo di un’istituzione bimillenaria, prende atto che un mondo è finito, che il mondo di ieri non c’è più. È un’ammissione drammatica, un grido, come lo era la profezia di un autore oggi dimenticato, Sergio Quinzio, che nel suo “Mysterium Iniquitatis” (Adelphi, 1995) vedeva all’opera «il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo», il male annidato nella Chiesa, la perdita di significato del suo annuncio nella storia. Ma una volta ammesso il fallimento di un disegno storico e secolare, Francesco invita la comunità che egli rappresenta ad andare oltre il rimpianto del tempo passato che è «più rassicurante, conosciuto e, sicuramente, meno conflittuale». La memoria, la tradizione, è «la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri». Per questo, «noi dobbiamo avviare processi e non occupare spazi». Perché gli spazi del passato da occupare non esistono più, a nulla varrebbe ripercorrere i modelli di ieri. Avviare i processi è l’opposto del cambiamento simulato, che tutto mantiene identico.

Le parole che il papa ha rivolto ai suoi, alla Curia vaticana – che anche nell’anno 2019 ha dimostrato una straordinaria resistenza all’urgenza della riforma – valgono per tutti, per la comunità civile e politica nazionale che in questo anno ha vissuto i cambiamenti come se fossero ordinari e lineari. Mentre il cambiamento epocale richiede una mutazione di campo di gioco, agenda, comportamenti, rapporto con il potere, modo di esercitare la leadership. Di fronte a questa esigenza la comunità politica, ad esempio una Nazione, uno Stato o un partito che si candida a governarlo, può reagire con la chiusura: blindare l’identità esistente, la rigidità della tradizione, la difesa degli apparati, i confini sbarrati. Oppure, al contrario, può candidare se stesso e le sue idee come una novità senza radici, presentando ogni iniziativa come senza precedenti: la riaffermazione continua dell’anno zero, prima di me non c’era nulla, e neppure dopo, si intende. L’effetto è lo sradicamento di cui parla lo storico Giovanni Orsina (La Stampa, 23 dicembre) , immaginando che la destrea vinca in tutto il mondo perché difende le ragioni della tradizione e dell’identità. Radicamento contro libertà, dunque. Pessimismo versus progresso, ha proposto invece L’Economist (21 dicembre) , spingendo ad abbandonare una visione catastrofica del futuro.

Tutti i primi anni Venti del nuovo secolo sono stati condizionati da questo scontro tra visioni opposte.

L’esaltazione della caduta dei muri e la loro ricostruzione, con la ricomparsa dei fili spinati, delle torrette alle frontiere della civilissima Europa. La globalizzazione delle merci, esaltata, e quella degli esseri umani, temuta e bloccata. I diritti sociali, in contrazione nelle società occidentali, e i diritti civili, in espansione. I social media e le nuove tecnologie che sono in bilico tra paradiso e inferno: il paradiso dell’interconnessione e l’inferno della propaganda e della privacy calpestata. La riscoperta del corpo come arma di lotta politica nella sua singolarità e l’algoritmo che tutto muove. La partecipazione della Rete e l’autoritarismo dei nuovi governanti, pur eletti in nome del popolo. La moltitudine di internet e l’uomo solo al comando, spesso due volti dello stesso fenomeno. La richiesta di nuovi attori globali sul versante internazionale e la paura che deriva dal protagonismo politico della nuova Cina. Infine, l’attitudine neoliberista, come la chiama Fabrizio Barca, che sembrava contrapposta all’attitudine allo status-quo e all’attitudine autoritaria, amante dell’obbedienza e dei vincoli, avversa alla complessità. Invece le tre tendenze si stanno abbracciando, come ha dimostrato il voto britannico e come potrebbe confermare il voto di fine anno in Usa. Un referendum sulla permanenza di Donald Trump alla Casa Bianca, perché di questo si tratta, altra prospettiva non c’è o per ora non si è vista.

Il nuovo secolo si è aperto con il popolo di Seattle, nel 1999, ribattezzato no global, anche se era il primo tentativo di soggetto politico globale. Il nuovo decennio si apre con il movimento globale fondato da Greta Thunberg cui dedichiamo questo numero speciale, l’ultimo del 2019 e il primo del 2020. Il primo movimento fu stroncato in Italia, nell’estate del 2001, durante l’incontro dei grandi del mondo a Genova, con una violenza inaudita che ha decapitato una intera generazione politica. Il secondo gode di vasti consensi e di grandi simpatie nell’opinione pubblica mondiale, si nutre di una visione alternativa alla nostalgia dei tempi passati o alla acritica esaltazione di tutto ciò che è nuovo. Prende atto che siamo in un’epoca di cambiamento, ma si oppone al mutamento climatico che conduce il pianeta e la Terra verso l’inevitabile apocalisse. È un movimento progressista, perché propone un nuovo modello di sviluppo, e al tempo stesso conservatore, perché nel progresso senza limiti e negli squilibri provocati dall’assenza di regole vede la causa della fine. In questo, pur essendo il suo opposto, è speculare al sovranismo che sogna il ritorno agli stati nazionali con la tradizione immodificabile, ma lo fa incarnando gli spiriti animali del nostro tempo, con una modernità che spiazza la sinistra immobile: il ritorno alla delega esaltato per paradosso dalla democrazia diretta, il culto dei capi, l’attacco agli organismi sovranazionali.

Vale per l’Occidente, per l’Europa e per l’Italia, paese laboratorio di tante sperimentazioni. Il 2019 si era aperto con il salvinismo trionfante, il premier Giuseppe Conte era un reggi-cartello del ministro dell’Interno leghista, Luigi Di Maio inseguiva i gilet gialli. Si chiude con un Salvini in una scomoda posizione: dopo la crisi d’estate e il tentato suicidio politico di aprire una crisi al buio, senza la certezza di ottenere il voto anticipato, il capo della Lega è tornato in testa nei sondaggi e dedicherà i primi giorni del nuovo anno alla madre di tutte le battaglie, il voto in Emilia Romagna del 26 gennaio. Al tempo stesso, come racconta Giovanni Tizian, è alle prese con le richieste di autorizzazione a procedere per la sua attività di titolare del Viminale e il suo partito è coinvolto in numerose inchieste giudiziarie.

Il sovranismo all’italiana sembrava finito in estate, quando si formò il governo Conte due fondato sul patto tra il Pd e il Movimento 5 Stelle, e non lo era, perché non era stato sconfitto nella società: lo abbiamo scritto quando andava di moda l’esaltazione dell’avvocato del popolo passato a sinistra, trattato come un incrocio tra Che Guevara e De Gasperi dai suoi cantori, montanelliani immaginari. Oggi, al contrario, il sovranismo sembra fortissimo, può contare su una potente armata mediatica che si rappresenta come alternativa all’egemonia culturale della sinistra defunta da decenni e su appoggi crescenti nell’establishment, dove si prepara quello che Giovanni Orsina ha chiamato «un onorevole compromesso», ovvero il patto di potere tra gli ex maleducatissimi populisti e i salotti buoni. Ma in questo passaggio si apre una possibilità, certamente esigua, per chi non vuole finire salviniano. Purché si abbia lo stesso coraggio di papa Francesco: dichiarare finito un mondo, i chierici di sempre non sono più gli unici a parlare, non sono né i primi, né i più ascoltati. Andare oltre per cambiare e per vivere un cambiamento di epoca, non per restare se stessi.

Un atteggiamento inconsueto nella storia italiana, dove le alleanze tra partiti e culture diverse sono state formate per conservare, non per cambiare. Con una grande eccezione: l’incontro tra democristiani e comunisti negli anni Settanta, nella versione di Aldo Moro, ben più che nel compromesso storico immaginato da Enrico Berlinguer, avrebbe lasciato alla fine del processo due partiti profondamente cambiati. Forse per questo motivo non si è mai compiuto. Provò ad andare oltre, tra le mille ironie dei suoi avversari, il segretario del Pci Achille Occhetto al momento di mutare nome e simbolo al partito che era nato dalla rivoluzione di Ottobre. Nelle altre operazioni, a cominciare da quella da cui prese l’avvio il Pd, si è cambiato per non morire, cambiare per la necessità di farlo e non per una spinta di libertà, cambiare per conservare: una pura occupazione di spazio.La manovra dell’agosto 2019, l’abbraccio tra il Pd e M5S e la nascita del governo Conte due, non è sfuggita a questa regola. Anzi, la stessa personalità del presidente del Consiglio suggerisce continuità, trasformismo, gattopardismo. Anche se ora, per il segretario del Pd Nicola Zingaretti, è diventato un punto di riferimento per «tutti i progressisti».

C’è un altro modo di vivere le contraddizioni e le sfide del decennio Venti che si apre e anche quelle della politica italiana. Andare oltre è una rigenerazione di quelle radici che non possono essere tranciate, significa rischiare qualcosa di se stessi per far nascere qualcosa di nuovo. Nei prossimi mesi non ci saranno più Pd e M5S così come li conosciamo. Il Movimento fondato da Grillo e Casaleggio, e affondato da Di Maio, deve riscrivere totalmente la sua presenza nel Palazzo e nella società. Il Pd di Zingaretti uscirà trasformato dall’incontro con quella che potrebbe essere l’unica vittoria della sua storia, la difesa del fronte emiliano-romagnolo. In caso di successo, il Pd di Largo del Nazareno dovrà ringraziare due spinte propulsive. La cultura di governo di Stefano Bonaccini e di quegli amministratori quarantenni che stanno reggendo all’ondata d’urto leghista non in nome dell’antico potere perduto ma della capacità di affermare che anche in Emilia il sistema è finito e deve rinnovarsi. E il movimento delle Sardine, che a Bologna è qualcosa di diverso dal semplice desiderio di rivincita della sinistra visto in altre piazze italiane. Sono soggetti che aspettano un’interpretazione nazionale che ancora non c’è.

Solo in questo modo la fragile e mediocre esperienza del governo Conte due potrà rivelarsi, per usare ancora le parole di papa Bergoglio, non quello che è stato finora, l’occupazione di uno spazio, ma l’avvio di un processo. Per farlo, serve meno trionfalismo, leader meno compiaciuti di se stessi. Vince chi va oltre le ceneri. E chi cerca l’aspetto sensibile delle cose.

L’ESPRESSO

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