Piazza Fontana, 50 anni dopo. “Non chiamiamola strage di Stato”. Intervista a Miguel Gotor

La strage di Piazza Fontana è stata avvolta dai luoghi comuni?

Bisogna sfatarne almeno tre, perché c’è troppa pigrizia. Il primo è il concetto di “manovalanza neofascista”. In realtà la galassia neofascista, tra cui Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, era un soggetto politico molto ben definito e con un gruppo dirigente che scelse l’arma odiosa dello stragismo per reagire alle aperture democratiche della seconda metà degli anni Sessanta in poi: sul piano politico, con il centrosinistra, su quello sociale con il movimento studentesco del Sessantotto e quello operaio dell’anno successivo. 

E questi neofascisti chi erano?

Erano trascorsi soltanto venticinque anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale. C’erano nostalgie mussoliniane, voglia di revanscismo degli ex repubblichini sconfitti e suggestioni filonaziste. In tanti avevano chinato il capo senza cambiare testa. Il disegno stragista dei neofascisti si proponeva di creare le condizioni per un golpe militare in Italia sul modello di quello greco. Ma l’Italia, come già avvenuto durante la Resistenza, non era la Grecia e questo disegno reazionario fu fermato anche dall’imponente mobilitazione dei cittadini nelle piazze, grazie all’impegno dei sindacati, dei comunisti, dei socialisti e dell’arco delle forze antifasciste, a partire dai funerali delle vittime di piazza Fontana in poi. In tanti in quei giorni capirono che non ci sarebbe stata acquiescenza e che la democrazia italiana avrebbe venduto cara la pelle.

Il secondo luogo comune su piazza Fontana?

Il concetto di ‘servizi segreti deviati’. Lo trovo autoindulgente. Non si può usare questo concetto quando furono i vertici del Sid (il vecchio servizio militare), cioè i generali Vito Miceli e Gianadelio Maletti, e i vertici dell’Ufficio Affari riservati (Umberto D’Amato e Silvano Russomanno) i principali promotori dei depistaggi, funzionali a occultare la pista nera con quella anarchica. Costoro promossero depistaggi di provocazione, di copertura e di omissione, in particolare non informando la magistratura di quanto già sapevano sull’effettivo ruolo svolto dai neofascisti nella strage e, in alcuni casi, aiutarono i neofascisti inquisiti a fuggire all’estero.

 “La Strage di Stato” è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?

Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.

Nel suo libro lei parla anche del ruolo avuto da alcuni politici Dc, in particolare Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri che “affrontò” il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nove giorni dopo la strage di Piazza Fontana perché era stato informato dal ministro della Difesa da Luigi Gui, un “suo “ uomo e dal capo della polizia Angelo Vicari, della vera natura della strage…

Gui, seguace di Moro, era convinto che la pista anarchica fosse falsa ed essendo ministro della Difesa aveva gli elementi per poterne essere certo. Moro in quei giorni drammatici, in rappresentanza dell’intera Dc, accettò un compromesso istituzionale e svolse un ruolo di contenimento. Ottenne dal presidente Saragat la rinuncia a sciogliere anticipatamente le Camere, un disegno che puntava a sfruttare l’attività di destabilizzazione dei neofascisti a ‘bassa intensità’, avvenuta nel corso del 1969 con oltre venti attentati senza vittime. L’obiettivo era quello di chiudere definitivamente con l’esperienza del centrosinistra e imprimere una svolta moderata al quadro politico e istituzionale come auspicato dall’amministrazione Nixon. In cambio Moro accettò il sacrificio politico di Gui che nel marzo 1970 lasciò il posto di ministro della Difesa al socialdemocratico Mario Tanassi e offrì la disponibilità della Dc a coprire la matrice fascista della strage, cosa che avvenne fino al discorso di La Spezia del 1973 del segretario Arnaldo Forlani che finalmente denunciò l’esistenza di una trama nera.

Quindi questo rivaluta il ruolo della Democrazia cristiana, vittima già dal 1969 di trame subite più che agite. In seguito c’è stata spesso in Italia il depistaggio, la “narrativa” depistante di gravissimi fatti di sangue…

Non parlerei di rivalutazione. Si tratta di comprendere i termini di un drammatico conflitto all’interno delle classi dirigenti di allora, dentro un vincolo esterno filoatlantico cogente, senza fare agiografie postume. Nella storia italiana purtroppo è avvenuto spesso che il compromesso politico si è fondato dopo, e soltanto dopo, lo scoppio di un’inaudita violenza contro cittadini inermi. Moro nel suo memoriale dalla prigionia scrisse che la strategia della tensione servì a ‘bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere’. Credo cogliesse nel segno.

Quanto spesso è avvenuto?

Per limitarci al Dopoguerra nel 1947, con la strage di Portella della Ginestra, con la fase stragista neofascista del 1969-1974, nel 1978 con l’agguato di via Fani e l’assassinio di Moro, e poi con le stragi di mafia del 1992-93. Ma potremmo ricordare anche la strage del 1921 del Diana a Milano, che accompagnò il crepuscolo liberale. Questi esiti stragisti sono sempre avvenuti in fasi di cambiamento di un modello politico e sono sempre stati funzionali a garantire una stabilizzazione moderata del quadro istituzionale complessivo. Credo che sia utile notare che dal 1994 in poi, nel corso della cosiddetta “Repubblica dell’antipolitica” (così la chiamo nel mio ultimo libro) iniziata con Berlusconi e ancora in corso, le stragi sono finite. Non mi sembra un risultato da poco.

Perchè?

“Perchè è caduto il Muro di Berlino ed è finita la Guerra Fredda. La strategia della tensione è scaturita da quel conflitto, in cui l’Italia aveva un ruolo geopolitico che oggi non ha più. Abbiamo avuto una costituzione formale antifascista e una materiale anticomunista e da questa contraddizione sono emerse ‘doppie lealtà’ e anche il fiore nero dello stragismo  In questo senso, possiamo parlare, per fortuna, di una drammatica vicenda ormai finita e che merita, finalmente, di essere storicizzata.

L’HUFFPOST

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