L’uomo forte e il declino del Paese moderato

Che cosa vuol dire la democrazia, portata dal cielo delle idee alla terra, quando gran parte della vita sociale del Paese si svolge in un’atmosfera di piccoli soprusi, di continue inadempienze e minute prepotenze pubbliche e private, quando è sempre latitante un intervento riparatore pronto ed efficace da parte dell’autorità che dovrebbe intervenire? Sì, sono tutte cose risapute, dette e stradette, ma ciò su cui abbiamo sempre preferito chiudere gli occhi è quanto tutte queste cose messe insieme stiano sfilacciando, abbiano in parte significativa già consumato, il tessuto non già della democrazia italiana — non lo credo — bensì la trama del consenso spontaneo dato convenzionalmente alla pratica della democrazia reale vigente nel nostro Paese. Il che fino a prova contraria è cosa assai diversa dall’arruolarsi nelle schiere dell’antidemocrazia e magari del fascismo.

La verità è che negli ultimi anni, per protesta contro uno Stato assente o complice del loro malessere, gli italiani hanno smesso di essere quel popolo in maggioranza moderata che sono sempre stati. Finora lo erano pensando che la condizione in cui si trovavano era più o meno accettabile, e che quindi bisognava andarci piano a cambiare: tanto più per evitare che potessero approfittarne i veri nemici della democrazia liberale, quelli che aderivano in gran numero a ideologie nate in esplicito contrasto con essa. Ma visto che da tempo questi nemici sono spariti, adesso per gli italiani è diventato possibile smettere di essere «moderati». Non è certo un caso se ormai sono rimasti solo due partiti, il Pd e Forza Italia, a potersi definire in qualche modo «moderati», essendo proprio per questo gli unici due partiti che oltre a riconoscersi nella vicenda politico-costituzionale del Paese e nella sua declinazione europeista, sono anche per così dire gli unici ad essere istituzionalmente governativi (quelli senza il cui consenso, per intenderci, un’elezione del Presidente della Repubblica apparirebbe quasi un colpo di Stato), e quindi gli unici in cui può riconoscersi senza problemi l’establishment.

In totale però Pd e Forza Italia rappresentano neppure un terzo dell’elettorato. Gli altri due terzi, invece, sembrano non volerne più sapere di «moderazione». E così non esitano, per l’appunto, a rompere quel vero e proprio tabù che il discorso pubblico ufficiale italiano si porta appresso dai tempi del consociativismo della Prima Repubblica e che consiste nel rifiuto superstizioso di qualunque esercizio del comando politico che non sia sottoposto a continue contrattazioni (e ritrattazioni). Non esitano a desiderare confusamente un modello di potere diverso: non dittatoriale, ma che si richiami per esempio al modello di potere rappresentato dal presidenzialismo francese o americano. Il desiderio dell’ «uomo forte» rilevato dal Censis, insomma, a me pare non sia altro che questo: il desiderio di un’istituzione politica di vertice efficace e autorevole, accompagnato dall’idea (non proprio così peregrina) che una maggiore personalizzazione del potere possa soddisfare una tale esigenza. E che in questo modo si possa anche prima o poi iniziare a vedere un’amministrazione pubblica e uno Stato diversi da quelli che abbiamo oggi.

Solo chi pensa che un governo democratico debba per forza rispondere alla forma disegnata dalla nostra Costituzione (malamente disegnata: si può dire dopo almeno quattro o cinque commissioni parlamentari inutilmente volte a modificarla ?), solo chi pensa a questo modo può interpretare il desiderio di un diverso potere di governo espresso da tanta parte degli italiani come una pericolosa pulsione antidemocratica pronta a dar vita a una riedizione del fascismo con annessi Minculpop e «manifesto della razza».

Il guaio dell’antimoderazione italiana, dell’orientamento diciamo così radicale che da tempo percorre il Paese, è che si tratta sì di uno stato d’animo vasto e profondo, il quale però non riesce ad avere alcuna presentabilità politico-culturale. Infatti i partiti e gli organi di stampa — sia di destra che di sinistra — che hanno cercato e cercano di farsene interpreti danno perlopiù voce a quell’orientamento nella maniera più urlata ma generica immaginabile. Tutto così si riduce alla denuncia del caso singolo, al tweet o al titolo ad effetto, alla gogna o al lazzo irridente (spesso corredata da foto adeguata) per il malcapitato di turno rappresentante di qualche «casta». Tutto si ferma alla critica demolitoria delle politiche ufficiali e alla partecipazione al talk della sera con slogan approssimativi purché espressi con la dovuta veemenza. La voce politica dell’antimoderazione italiana insomma, appare priva di prospettive generali, di un minimo di cultura politica, di qualsiasi ragionato progetto riformatore, e viceversa sempre interamente subordinata alle contingenze dello scontro immediato (si ricordi l’opposizione al referendum costituzionale del 2016 proprio da parte di chi, invece, come i 5Stelle e molti fogli della destra avevano fatto del cambiamento la loro bandiera) . Grazie all’antimoderazione, dunque, si può anche arrivare a vincere le elezioni, ma — come vediamo oggi e come sospetto fortemente che vedremmo anche domani in caso di una vittoria della Lega — poi, però, si riesce a combinare poco o nulla.

CORRIERE.IT

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