Caso Ilva, chi prende il timone del Paese

Appena si è trasferito in Gran Bretagna ha donato cospicui finanziamenti al partito laburista ed è forse in virtù di questa sua generosità che giornali e tv più impegnati lo hanno sostanzialmente risparmiato. Anche quando nel 2001 grazie all’aiuto di Tony Blair concluse un affare con il leader socialdemocratico rumeno Adrian Nastase per la conquista dell’acciaieria di Hunedoara che sfortunatamente nel giro di dieci anni sarebbe finita pressoché in rovina.

Abbiamo citato questo caso perché ciò che è accaduto in Romania potrebbe essere citato come un precedente per le accuse di sabotaggio rivolte a Mittal (e più direttamente a suo figlio Aditya presidente e cfo dell’azienda paterna) in merito alla vicenda di Taranto. Mittal, in sostanza, acquisterebbe acciaierie concorrenti allo scopo non di farle funzionare, bensì di distruggerle. Per questo il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo ha ipotizzato per lui il reato di violazione dell’articolo 499 del Codice penale («Distruzione di materie prime, di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione»). Pena prevista: fino a dodici anni di prigione. Ma, ad un tempo, da quella stessa procura — nel quadro di un’azione giudiziaria causata dall’atroce morte dell’operaio Alessandro Morricella nel 2015, tre anni prima che Mittal comparisse sulla scena pugliese — era giunta un’ingiunzione all’azienda perché chiudesse l’altoforno 2 (e per analogia l’1 e il 4 che presentano gli stessi problemi) qualora non fosse riuscita a metterlo in regola entro i primi giorni di dicembre. Con il che il nostro maharaja londinese si sarebbe trovato adesso in seri guai sia nel caso in cui avesse deciso di spegnere l’altoforno 2, sia se avesse optato per tenerlo ancora in funzione. Nel primo caso sarebbe stata «provata» la cospirazione a danno della sopravvivenza dell’azienda, nel secondo quella a nocumento della salute degli operai. Tutto ciò in un contesto in cui, a seguito di una crisi non solo italiana della produzione di acciaio, l’azienda ha annunciato di volersi disfare di cinquemila operai. E mentre il Codacons ha accusato i vertici Mittal di estorsione chiedendone l’arresto.

Come si sarà intuito dall’introduzione, però, Mittal ha a disposizione fior di avvocati che pur con qualche difficoltà avrebbero forse saputo districarsi nel labirinto giudiziario costruito dai magistrati pugliesi. Senonché la maggioranza di governo con l’intermittente abolizione dello scudo protettivo per i dirigenti dell’impresa ha offerto a Mittal un’occasione d’oro per mandare tutto a monte e scindere il contratto senza ritrovarsi dalla parte del torto. Adesso il presidente del Consiglio, costretto da una frazione del M5S a non reintrodurre all’istante il summenzionato scudo, annuncia di volerne utilizzare la reintroduzione come elemento di trattativa.

Se tale trattativa dovesse riavviarsi e andare in porto — cosa di cui dubitiamo — il merito vero andrebbe riconosciuto a due «supplenti» d’eccezione entrati in scena questa settimana: Sergio Mattarella e Francesco Greco. Il Capo dello Stato si è visto costretto a prendere l’iniziativa, irrituale e con pochi precedenti, di ricevere i leader sindacali per responsabilizzarli assicurando loro il proprio «sostegno». Il capo della Procura di Milano si è sentito in dovere di ricorrere alla mossa altrettanto ardita di inserirsi nell’intricata vicenda giudiziaria pugliese avviando una nuova indagine al fine evidente di mettere ordine nel pasticcio combinato dai colleghi tarantini. I reati ipotizzati dai pm milanesi sarebbero aggiotaggio informativo e violazione della legge fallimentare. Più un rigonfiamento dei prezzi delle materie prime praticati negli acquisti infragruppo che potrebbe aver eroso il patrimonio dell’Ilva. E persino un’omessa dichiarazione dei redditi per le attività di una società lussemburghese del gruppo franco indiano nei rapporti commerciali con la filiale italiana. Anche in questo caso i «sabotatori» si sarebbero mossi nell’intento di mettere l’Ilva fuori uso.

Ma mentre i sindacalisti accolti al Quirinale hanno dato segno di aver capito l’antifona contenuta nel messaggio del Presidente, i magistrati di Taranto non hanno offerto alcuna prova dell’intenzione di farsi da parte e cedere il passo ai ben più attrezzati colleghi milanesi (a Greco è unanimemente riconosciuta una capacità fuori dal comune di districarsi in questioni finanziarie). Sicché adesso è possibile che tra le due procure si crei un contrasto di competenze e che il conflitto tra Milano e Taranto finisca alla Procura generale della Cassazione. Con tempi dilatati, probabili sorprese e in un caos giudiziario che difficilmente consentirà all’Ilva di riprendere a funzionare.

Ma il punto forse è un altro. Finché la politica non avrà ripreso in mano il timone del Paese, finché il capo del governo non avrà alle spalle una compagine compatta quantomeno sulle questioni fondamentali (e questa dell’Ilva è una di quelle), i «supplenti» potranno magari riuscire in extremis a impedire che il treno deragli ma difficilmente saranno in grado di fargli riprendere la corsa. Ed è inoltre improbabile che eventuali investitori italiani o stranieri decidano di impegnarsi in un Paese in cui alla fine ci si ritrova sempre inevitabilmente sul set di un film di Hitchcock.

CORRIERE.IT

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