Quei privilegi costosi riservati ad Alitalia

C’è un problema di liquidità, innegabile, ma l’Alitalia perde circa mezzo miliardo l’anno. Si tira a campare, dando un calcio alla lattina, nella speranza che si trovi, tra rinvii, proroghe, misure ad hoc, un azionista stabile. I tentativi in passato sono stati numerosi, tra «capitani coraggiosi» — imprenditori italiani, investitori preterintenzionali e costretti per varie ragioni a intervenire — gli ineffabili arabi di Ethiad e via di seguito. L’americana Delta non vuol metterci più del 10 per cento a dimostrazione di un irrefrenabile entusiasmo a investire in Italia. Ritiratasi Atlantia, il resto dovrebbero farlo le Ferrovie dello Stato e il ministero dell’Economia. Insomma, la mano pubblica, cioè tutti noi. La tedesca Lufthansa, che vorrebbe prima una ristrutturazione con migliaia di esuberi, aspetta alla finestra. Ha il tempo dalla sua parte. Si rimpiangono vecchie occasioni. Quando si poteva dare tutto alla Air France-Klm, che avrebbe pure pagato, ma si opposero i sindacati.

È strategico avere un’industria dell’acciaio in un Paese a forte vocazione trasformatrice e meccanica. Non lo è tenere una compagnia di bandiera che ha ormai una quota di mercato interno di oltre il 30 per cento. Nonostante il prestigio, la qualità e il garbo di tantissimi dipendenti di Alitalia che ancora trattano i passeggeri come persone (grazie) e non come merce low cost. Prima o poi bisognerà fare i conti con la realtà. Salvare il salvabile. Accettare e gestire al meglio una cura dimagrante. Più si rinvia più si paga. Cioè più pagano gli italiani che già contribuiscono, con un sovrapprezzo su ogni biglietto acquistato, a finanziare un fondo che ha reso possibile, con la ristrutturazione del 2008, uscite con l’80 per cento effettivo dell’ultimo stipendio e uno «scivolo» pensionistico di 7 anni. Condizioni che lavoratori di altri settori in crisi semplicemente si sognano. E agli imprenditori in difficoltà è assai improbabile che si concedano prestiti — come è accaduto per i 900 milioni assicurati durante la scorsa legislatura all’Alitalia — abbuonando gli interessi passivi. Si impone al contrario di rientrare subito nei fidi. Il nostro Paese è al primo posto di una classifica Ocse per i fondi devoluti a imprese decotte. Non è un caso. È un primato che dovrebbe sollevare qualche interrogativo. Cominciamo, almeno, a non chiamare più prestiti (e ponte: verso che cosa?) quelli che sono semplicemente fondi perduti. O meglio: perduti da tutti.

CORRIERE.IT

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