Conte fa la cosa giusta

Bravo Giuseppe Conte. Magari è andato a Taranto solo per prendere tempo, perché non ha ancora nulla in mano per affrontare la crisi dell’Ilva, come dicono gli analisti politici. Ma il viaggio ha rotto la sua pretenziosa postura da Premier, e, quel che è più importante, ha rotto la claustrofobica circolarità del dibattito romano su questa crisi. Fornendo, con questa rottura, la prima indicazione che la preoccupazione che attanaglia tutti noi, che guardiamo sgomenti alle dimensioni di questa crisi innescata dall’Ilva, riesce forse a penetrare anche le venerande e sorde, spesse mura dei Palazzi Romani. 

Perché sì, la crisi partita dal ritiro di ArcelorMittal da Taranto, partita come l’ennesimo tormento Ilvesco, si è caricata per strada, per tempi e modi, di un minaccioso senso di presagio. Dopo il ritiro si accavallano gli annunci di altri fronti di crisi. Per primi quelli dell’indotto della stessa Ilva, le cui aziende hanno inviato lettere per mettere in cassa integrazione il proprio personale, giustificando la decisione come conseguenza di quella dell’acciaieria-madre. Scrive ad esempio l’Enetec, l’azienda che si occupa di progettazioni, costruzioni e montaggi nella lettera inviata oggi ai sindacati e a Confindustria Taranto: “In data 4 novembre la Società ha ricevuto da Arcelor Mittal comunicazione circa l’avvio della procedura di recesso. Tale circostanza, pur in assenza di comunicazioni ufficiali circa la possibile sospensione degli ordini, pone a rischio tutte le commesse ad oggi in fase di lavorazione”. Con un effetto sull’indotto che aggiunge 10mila posti di lavoro ai 10mila a rischio dentro l’Ilva. Nelle stesse ore arrivano cattive notizie dal fronte Alitalia: la Lufthansa blocca ogni decisione sul suo ruolo nel salvataggio della compagnia di bandiera italiana e pone anche lei condizioni dure, dichiarandosi per bocca del suo numero uno, Carsten Spohr, interessata “solo ad investire in una nuova Alitalia ristrutturata”. Frase che in soldoni significa tagliare 2.800 dipendenti e 20 aerei della flotta.

Insomma, magari è solo una impressione o una emozione, ma è come se l’annuncio del recesso di ArcelorMittal fosse l’avvio di una slavina, che rischia  di trascinare in un gorgo le tante vertenze aperte da mesi e settimane. Rievochiamone qui i numeri, presi dal “Sole 24 Ore” che in agosto ha contato le vertenze sul tavolo del governo, 150 casi dal 2016. Di queste solo il 38 per cento chiuso positivamente. Piccola percentuale sul resto: quel 34 per cento finito negativamente, e quel 27 per cento delle crisi ancora in corso, e di cui vediamo ormai quotidianamente i lavoratori coinvolti alle prese con proteste sempre meno efficaci.

ArcelorMittal, con il suo piratesco menefreghismo, ha aggiunto a questo drammatico declino, il senso di un generale liberi tutti: se i “padroni” dell’acciaieria più importante d’Italia e una delle maggiori in Europa possono alzarsi una mattina e andar via fregandosene di tutti i patti sociali e legali sottoscritti, allora ognuno può fare lo stesso. Questo è il segnale che viene da Taranto, e questa è la tempesta perfetta di cui si diceva. L’Ilva non è infatti solo il riaprirsi oggi una una antica crisi, ma è il cambio di passo delle relazioni legali e politiche come sono state definite finora nel nostro paese. L’addio dei “padroni” dell’Ilva è drammatico non solo per le sue conseguenze, ma per i suoi modi – che portano l’Italia dentro l’universo del nuovo capitalismo mondiale, quello crudo e sregolato che sta vincendo la sfida della globalizzazione. 

È esattamente il gorgo di trascinamento che teme il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri ha visto d’urgenza il premier Conte con un “Fate presto” che vale, come trapela, “per Alitalia, Whirlpool e le tante altre crisi aziendali aperte”. “Non possiamo permetterci sull’onda dell’abbandono di ArcelorMittal che scatti un effetto sistemico sulle nostre imprese”. 

Ma l’effetto è già qui – come se tutti gli ultimi anni di attese e rimandi si fossero incanalati dentro il grande imbuto dell’Ilva. Sul tavolo del governo è arrivato tutto insieme il conto salato della crisi industriale, e lo spettro di un vero, anche se inatteso, Autunno Caldissimo. 

Una prospettiva da far tremare i polsi. Un compito gravoso per qualunque governo, figuriamoci per questo esecutivo nato in fretta e mai ancora nemmeno amalgamato. Un drastico cambiamento di prospettiva per una legislatura finora prigioniera di un esasperante ping pong di piccoli ricatti su “chi stacca la spina”.  

La crisi Ilva riporta a Roma una realtà sudata, disperata, umana. Cui Roma non può sfuggire. In poche ore è girato il campo visuale del governo. Il problema non è dentro di sé ma fuori. 

Proprio per questo, se un capo c’è del bandolo da trovare, lo si trova nel prendere pienamente atto della grandezza della crisi, e nel non sottrarvisi. Il primo passo, in altre parole, è: confrontarsi con questo cambio di passo, con questa drammatizzazione. Uscire dal Palazzo, accettare insulti e preghiere, esserci lì dove si soffre. Senza temere insulti, incidenti, richieste, parole, emozioni. Immergersi nella realtà, e spogliarsi di quell’esile corazza che è quell’esagerato senso della propria importanza dietro cui i politici che governano oggi nascondono le proprie insicurezze. 

Se c’è una soluzione ai problemi, specie quelli così grandi, la si trova solo attraverso chi questi problemi vive.

Per questo il viaggio a Taranto del premier Conte, senza macchina, senza portaborse e senza sceneggiature scritte prima, è un ottimo passo: se i ministri dell’attuale esecutivo adottassero da qui alle prossime settimane e mesi questo sistema di relazioni, se abbandonassero i loro uffici e fossero ovunque (che sogno!) troverebbero di sicuro qualche strumento in più per capire cosa fare. E magari uscirebbero da questo processo come persone nuove. 

L’HUFFPOST

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