Lui è tornato: Matteo Salvini di nuovo sulla scena da vincitore



Sipario chiuso. Non è un semplice cambio di maggioranza, non è solo una vittoria. È la smentita di un’ipotesi che a conclusione della crisi di governo estiva circolava con fin troppo ottimismo. A rileggerle ora quelle espressioni fanno amaramente sorridere: il salvinismo è stato sconfitto, è finito il clima d’odio, comincia una nuova stagione, un nuovo umanesimo, addirittura, nelle parole del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dei suoi groupie di carta, il premier di ieri e di oggi, con due maggioranze diverse e contrapposte. A meno di sessanta giorni dal giuramento del sessantaseiesimo esecutivo repubblicano non resta che confermare quanto avevamo scritto in pochi, eppure si trattava di una serie di ovvie verità. Che Salvini era stato sconfitto nel Palazzo ma non nella società. Che non bastava una maggioranza parlamentare a cambiare la temperatura nel Paese. Che sull’operazione il Movimento 5 Stelle si giocava la sopravvivenza e il Pd qualcosa di ancora più prezioso, l’identità.

M5S è stata un’ondata di piena che dal 2013 in poi ha investito tutta la politica italiana, ma senza costruire, e quando il livello dell’antipolitica si è abbassato l’acqua si è prosciugata e non ha lasciato nulla. Niente di cultura politica, di classe dirigente, di realizzazioni di governo. La Lega è invece un partito di calce viva che edifica strutture minacciose sulle macerie dei precedenti. In macerie (e in ricostruzione) è il vecchio centrodestra. Venticinque anni fa, di questi tempi, Umberto Bossi trafficava con pidiessini e popolari per far cadere il governo Berlusconi. Ritornò al governo soltanto nel 2001, in posizione subalterna a Forza Italia e al Cavaliere trionfante. Oggi Berlusconi è un optional per Salvini, che potrebbe fare anche senza di lui. In tutta Europa la vera partita si combatte lì, nel corpaccione centrale dell’elettorato. Nelle stesse ore del voto umbro in Turingia, nel cuore della Germania centro-orientale, il partito di ultradestra Afd superava la formazione di Angela Merkel, in un land dove il primo partito è la Linke di sinistra radicale. Intanto, la Commissione europea guidata dalla politica tedesca più vicina alla cancelliera, l’ex ministra Ursula von der Leyen, fatica a decollare. E nel Parlamento dell’Unione i popolari alleati con i sovranisti hanno respinto una risoluzione sulle Ong e sui porti aperti.

Egemonia e subalternità sono le parole chiave di una battaglia politica che infuria da mesi, in Europa e in Italia. Salvini ha perso una grande occasione prima delle elezioni europee di maggio e subito dopo, quando il risultato alle urne gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo che conta, tra i grandi del club europeo. A una condizione: abbandonare gli alleati scomodi, smentire il preambolo del suo amico Gianluca Savoini all’hotel Metropol di Mosca, «la nuova Italia costruirà una nuova Europa accanto alla Russia». Invece ha preferito perseverare nell’errore e nella votazione per la nuova Commissione è stato isolato, emarginato da tutto.

Qualche settimana dopo è finito fuori gioco anche in Italia. Ma la partita non è finita, i populismi sono imbrigliati ma non sconfitti. E il campo di competizione è, di nuovo, il corpo centrale dell’elettorato. Un ceto medio incattivito e impaurito, da anni eroso nelle sue aspettative e nelle sue certezze economiche, avvinghiato al presente come all’ultima scialuppa di salvataggio. Salvini ha intercettato questo vento, al pari dei suoi colleghi sovranisti di tutta Europa, ma con due condizioni di vantaggio. A differenza di Marine Le Pen o dei tedeschi di Afd e affini, pur essendo oggi all’opposizione del governo centrale, è alla testa della maggioranza delle regioni italiane. E la sua lotta di egemonia con la destra moderata si svolge all’interno della stessa coalizione: il centrodestra italiano è tutto schierato con la sua leadership, da Forza Italia a Forza Nuova.

Nessun partito moderato, liberale, post-democristiano alza la diga anti-sovranista, come accade nel resto d’Europa. Di inedito c’è la trasformazione del personaggio Salvini. Da ministro dell’Interno, uomo di governo, si faceva riprendere in maglietta e mutandoni, come un tribuno della plebe. Ora che è relegato all’opposizione, scottato dallo smacco di agosto, sfodera il volto disteso, da calma forza tranquilla, neanche fosse François Mitterrand, veste l’abito blu istituzionale. Annusa che l’elettorato va rassicurato e non più soltanto stressato e fomentato, di rabbia e di delusioni ne ha avute abbastanza. Così Salvini non chiude a Mario Draghi presidente della Repubblica, si prepara all’ingresso della Lega nel Partito popolare europeo, come aveva annunciato Giancarlo Giorgetti, mette la sicurezza e la lotta contro l’immigrazione in fondo all’agenda delle priorità e parla di tasse, economia e lavoro. E prepara l’assedio all’Emilia rossa, la Maginot del centrosinistra italiano: se cade alle prossime elezioni, addio. Ma lo fa con la promessa di sostituirsi agli uomini del Pd che non sanno più difendere il sistema dei servizi che hanno messo in piedi da decenni, corteggia i nuovi residenti, i figli dei meridionali emigrati nella regione che oggi sono delusi dal venire meno di un modello sociale, attacca la sinistra sulla questione morale, sulle infiltrazioni della ’ndrangheta. In Europa si traveste da democristiano, in Emilia da comunista padano.

Carlo Tullio-Altan ha scritto un quarto di secolo fa che la vita politica nazionale è un alternarsi di fasi trasformistiche e di fasi autoritarie, «determinate dai limiti funzionali delle temporanee soluzioni democratico trasformistiche». Un’intuizione che il figlio del grande antropologo, il nostro Altan, ha genialmente sintetizzato con la vignetta: «L’italiano è un popolo straordinario. Mi piacerebbe tanto che fosse un popolo normale». Il succedersi del governo Conte uno e del Conte due ne è una plastica conferma. Alla fase autoritaria e al rischio di una vittoria elettorale del salvinismo da combattimento e da spiaggia si è risposto con un’operazione di maquillage politico impersonata dal presidente del Consiglio. Ora, però, c’è il precoce incepparsi di questo esperimento, che potrà durare non per virtù ma per il magico potere di convinzione del tirare a campare di trecento e più parlamentari del Movimento 5 Stelle, evaporati nella società e nell’elettorato. Non si è mai assistito in così breve tempo al tramonto del partito di maggioranza relativa. Da oggi i parlamentari a 5 Stelle sono in cerca d’autore. Il premier Conte appare un regista fragile, naviga a vista. E si rischia un pericolo maggiore.

Matteo Salvini è il più trasformista dei politici italiani. È passato dalla secessione al sovranismo, per lui è un gioco da niente diventare erede del moderatismo o di una certa antropologia conservatrice che nelle regioni rosse abita anche nell’elettorato post-comunista. Se la metamorfosi gli riesce sarà lui a costruire il nuovo Partito della Nazione, in grado di durare anni. Con una creatura politica inedita e inquietante. Il trasformismo autoritario.
Nel Pd si riprende il flusso dei distinguo, la richiesta di un nuovo congresso, ma si discute poco di come sconfiggere questo nemico letale, o almeno contrastarlo. A trent’anni dalla svolta post-caduta del muro di Berlino di Achille Occhetto, il crollo umbro è un nuovo spartiacque storico.

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L’opportunista Dario Franceschini adesso si prepara per Palazzo Chigi

Quarant’anni in politica, mai da leader, è l’uomo forte del Pd nel governo Conte. Parla con Di Maio, media con il Quirinale, cerca Renzi. Capeggia i dem contrari alle elezioni, in caso di crisi è pronto a diventare premier. Un’ambizione rivelata dallo staff che si è costruito ai Beni culturali

Il partito di Nicola Zingaretti è scisso tra una reazione burocratica alla sconfitta elettorale («la lista ha tenuto», ha scritto qualcuno) e la tentazione di un nuovo governo con un premier del Pd (Dario Franceschini) e di nuove elezioni, che sarebbero oggi la certificazione di un fallimento. È l’immagine di un soggetto fuori dalla società e lontano dal popolo, che per molti italiani – anche ex elettori di sinistra – rappresenta il volto più distante e inerte del sistema perfino quando sta all’opposizione, figuriamoci quando si è avventurato in un’impresa di governo con una manovra improvvisata. Tornare indietro è impossibile, dalle macerie deve nascere qualcosa di nuovo. Su quella strada si è già incamminato, in casa sua, Beppe Grillo, ansioso di chiudere il circo a 5 Stelle che lui stesso ha messo in piedi in questi ultimi dieci anni. Per la sinistra il percorso è più lungo e doloroso. Alla fine di ogni comizio Salvini è giù dal palco, ad abbracciare il suo popolo. Per il Pd si tratta di ritrovarlo. Insieme alle ragioni del fare politica, idee antiche e dirigenti nuovi, qualcosa che assomiglia al crederci. La premessa di un riformismo combattivo, quel qualcosa che si è smarrito.

L’EPRESSO

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