Il senso di un voto

Così pure si è rivelata impossibile la rivitalizzazione del blocco cattolico-postcomunista mediante l’alleanza con i 5 Stelle. Divorati dalle ambizioni personali, paralizzati dall’inesperienza e dall’inconsistenza culturale, i seguaci di Grillo hanno sprecato la loro grande occasione negli anni dal 2013 al 2018. Quando cioè, avendo avuto la fortuna di restare fuori dal governo dopo il loro primo grande successo elettorale, avrebbero potuto – e dovuto – impiegare il tempo prezioso cosi acquistato cominciando a pensare, a studiare, a imparare a leggere e a scrivere. Hanno invece creduto ingenuamente di essere ormai a cavallo, sicuri di aver scoperto gli stivali delle sette leghe che li avrebbero condotti di successo in successo. E invece, alle elezioni del 2018, unicamente grazie al vantaggio di essere rimasti sempre all’opposizione sono riusciti sì a vincere nuovamente e clamorosamente, sono quindi andati sì al governo, ma da quel momento in avanti un vero abisso si è aperto sotto i loro piedi: solo parole in libertà, inettitudine, e il buio del nulla.

La parabola dei 5 Stelle, con la loro repentina ascesa e il precipizio successivo ricorda singolarmente quella dell’Uomo Qualunque nel 1944-46. È un’analogia rivelatrice. Sembra un’ulteriore conferma che in realtà, come dicevo, stiamo vivendo una drammatica fase di rifondazione del nostro sistema politico, un vero e proprio passaggio di fase storica, forse domenica avviato a una conclusione. È tipica di simili transizioni infatti, è tipica della radicale perdita di punti di riferimento che in essa si verifica, la nascita d’improvvise fiammate di protesta, l’erompere di movimenti subitanei destinati presto a spegnersi. Così come è ancora già successo nel corso della nostra vicenda nazionale, proprio come si annuncia oggi, che le transizioni/rifondazioni abbiano sempre comportato un altissimo coefficiente di trasformismo e talora la presenza di un ambizioso non politico autocandidatosi a virtuale demiurgo politico — modello Badoglio insomma ma anche di altri più vicini a noi — in funzione di traghettatore non si sa bene dove ma che poi è costretto a ritirarsi con le pive nel sacco.

Per finire, se non bastasse tutto quanto appena detto e il già ricordato tramonto di Forza Italia nonché del disegno cattolico-postcomunista, c’è un sintomo ulteriore e quanto mai significativo dell’esaurimento del sistema della Prima Repubblica. Si tratta della fine conclamata del paradigma antifascista. Cioè di quell’asse portante del primo cinquantennio repubblicano e oltre che implicava l’interdetto pubblico (efficace eccome anche sul piano elettorale) nei confronti di chiunque fosse bollato come «fascista». Una scomunica che ha funzionato ancora abbastanza bene contro Berlusconi e i suoi, ma che oggi contro Salvini e Meloni — per giunta, si noti, in una regione di tradizioni politiche rosse — si è dimostrata del tutto sterile.

Ma come accadde tra il 1945 e il 1948, anche oggi la rifondazione del sistema politico sembra non poter avvenire che all’insegna di un grande compromesso con la pancia conservatrice del Paese. In Italia infatti sembra che solo così possano nascere nuovi equilibri stabili, salvo poi evolvere verso altri lidi. Lo straordinario successo attuale della destra sembra preludere – e insieme essere già il frutto – di un compromesso del genere: alla luce del quale la presenza di Forza Nuova nella piazza leghista di oggi ha lo stesso valore di un segnale inequivocabile che ebbe la presenza di Rodolfo Graziani sul palco insieme ad Andreotti in un lontanissimo comizio ad Arcinazzo nei remoti anni del centrismo. Perché è per l’appunto questo che oggi la Lega può accingersi a fare forte del suo potenziale consenso: ripercorrendo le orme della Democrazia Cristiana del ’48, cercare di rifondare intorno alla propria forza un blocco paracentrista di governo: con Meloni come sua corrente interna-esterna di tono più radicale, con Forza Italia in versione simil-Partito Liberale e magari con Matteo Renzi sulla sinistra in funzione simil-saragattiana.

Oggi è difficile non ricordare che già una volta un cambio di regime partì a suo modo dall’Umbria: allorché nel 1922 i fascisti posero in un albergo di Perugia il comando della marcia su Roma. Che a quel che si è visto Matteo Salvini abbia scelto per il suo quartier generale almeno un albergo diverso è già un motivo di speranza.

CORRIERE.IT

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