“De Gasperi, mio padre. Così salvò l’Italia”

Come riuscì a penetrare il gelo della Conferenza?

“In realtà, quando finì, nessuno batté le mani. Nessuno si avvicinò. Solo il rappresentante americano, che era Foster Dulles, gli strinse la mano. E quello è stato il momento in cui mi ha detto: “Ecco, vedi, abbiamo una strada. Qualcuno mi ascolterà”. Il suo modo di porre i problemi, senza chiedere pietà, ma solo di essere ascoltato con onestà, è stata la via migliore che potesse seguire in quella occasione. Ma prima di andare a Versailles è entrato in chiesa”.

A Parigi?

“Sì. Lui era accompagnato dal nostro ambasciatore di allora. A piedi lungo la strada verso Notre Dame, si fermò e gli disse: “Lasciami entrare un attimo”. L’ambasciatore rimase indietro, in fondo alla Chiesa. Mio padre va davanti e, quando uscì, disse: “Adesso mi sento meglio“”.

Un gesto di fede, ma solitario e intimo.

“Mio padre aveva questa serietà della sua religione, nella quale credeva profondamente. Ma non la propagandava, non la faceva vedere, sapeva benissimo lavorare insieme con persone che avevano altre idee religiose”.

Lo accompagnava sempre nei viaggi?

“Molto spesso. Ricordo la prima volta che gli alleati ci permisero di andare a Salerno, appena finita la guerra. Non si poteva andare in auto, le strade erano bombardate, i ponti rotti. Andammo allora in aereo. Io ero l’unica ragazza con loro. Era impressionante vedere la distruzione dell’Italia dall’alto. Immagini che restano nella memoria per sempre. Un Paese distrutto, con centinaia di migliaia di morti, donne senza marito, ragazzi orfani”.

Un’Italia devastata nella materia, nei corpi, nelle anime. Come è stato possibile rimetterla in piedi in dieci anni?

“Pensare a quello, e pensare a quanto si sia riusciti a fare nei primi dieci anni dopo la guerra, è davvero da studiare, da capire. Mio padre poteva fare conto sull’aiuto di persone che avevano già una certa età. Persone che avevano subito il Fascismo, capaci di reagire. Persone serie, in grado di mantenersi con poco. Gente dura innanzitutto nei confronti della propria vita. Ricordo questi ministri, che, quando venivano cambiati da mio padre per ragioni politiche, uscivano dal ministero a piedi. E addirittura ringraziavano. Ci sono lettere: “Caro Presidente, ti ringrazio molto della collaborazione”.

Che cosa c’era allora che oggi non c’è?

“La serietà dei comportamenti, insieme con il bisogno e il desiderio di cominciare daccapo finalmente per bene. E così quel tempo e quella ricostruzione non sono merito di uno o di un altro, ma di un tipo di persone che erano così, senza distinzioni di partito”.

Decisivo fu anche l’aiuto degli americani: come andò il “famoso” viaggio negli States?

“Il viaggio fu avventuroso. Gli aerei volavano più bassi. Il nostro si chiamava Sky Master. Faceva un rumore terribile. A bordo eravamo io, mio padre, altri rappresentanti del governo, alcuni giornalisti. Partimmo da Roma per Parigi. Da Parigi scendemmo alle Azzorre. Mi ricordo che passeggiavamo in aeroporto nell’attesa dei rifornimenti. Riscendemmo in altre isole. Dormimmo in aereo. Mi ricordo che era notte. Incontrammo tempo brutto. Eravamo sdraiati e gli dissi: “Sta’ tranquillo, io so nuotare“. Mi disse: “Vai a dormire, vai””.

E una volta in America?

“Arrivammo e cominciò un giro infinito di incontri, cerimonie, pranzi, cene, anche due, tre al giorno. Le associazioni di italoamericani si erano date da fare moltissimo: ci facevano feste incredibili, pranzi immensi. Si correva da una visita, un ricevimento, all’albergo. Ci si cambiava e di corsa a un altro appuntamento. I motociclisti mi chiamavano con accento americano: “Mariaaa, presto, Mariaaa“. E io correvo”.

Fu onorato con una ticker-tape parade, una parata spettacolare, dalla città di New York, l’unico italiano a riceverla due volte, la seconda nel ’51.  Ma con i rappresentanti del governo americano come era il clima?

“Gli altri incontri, con i rappresentanti dell’amministrazione americana o di altre istituzioni erano ben diversi. Noi siamo andati a chiedere aiuto, ma di questo non si parlava. Non si arrivava mai a una conclusione. Tanto che mio padre, il penultimo giorno mi disse: “Sai, ho l’impressione che andremo via senza niente“. E io a rincuorarlo: “Ma no, vedrai papà“. E infatti il giorno dopo arrivò l’aiuto desiderato in dollari (un prestito da 100 milioni, ndr). Si poteva ricominciare, ricostruire”.

Gli americani sottoposero suo padre a un vero esame? 

“Sì. Gli americani lo sottoposero a un esame continuo e hanno aspettato fino alla fine per decidere se si potevano fidare di questa persona. Una persona che non conoscevano. Questo nuovo personaggio chi era? Chi rappresentava?”.

Gli chiesero “anche” di mettere fine al governo con i comunisti. E al ritorno quella esperienza finì.

“Questa fu una delle situazioni delle quali certamente parlò con gli americani. Si trattava di stare con l’Unione sovietica o con l’America. Lui fece capire  da parte stava. Al ritorno, Togliatti  fece uscire un articolo contrario a quello che aveva fatto De Gasperi. Insomma furono quasi loro stessi a andarsene. Forse pensavano di tornare al governo in una situazione diversa. Invece da quel giorno non tornarono più”.

La rottura con Palmiro Togliatti fu anche personale?

“In realtà, non ci furono mai scontri duri sul piano personale tra i due, né in Parlamento né fuori. Ma non c’era neanche una finta amicizia. Rispetto, ma distanza. Tanto che quando Togliatti lo vedeva alla buvette alla Camera, gli voltava le spalle”.

Con Pietro Nenni era diverso?

“Sì. C’era una certa amicizia. Si era stabilita quando erano stati nascosti insieme in Laterano. Avevano rischiato anche insieme di essere catturati durante una retata delle SS: i frati li nascosero nelle cantine e fu in quella occasione che Nenni disse a mio padre: “Tu dirai che è la provvidenza, io dico che è il destino, ma questa volta ci prendono“. Si salvarono. E fu proprio mio padre a andare da lui a dirgli che la figlia, presa dai nazisti, era morta in un campo di concentramento. Non volle che lo sapesse da altri. Mio padre ha sempre cercato di avere i socialisti con sé ma non ci riuscì”.

Nelle elezioni del ’48 furono su fronti opposti. Ma anche di quella esperienza lei ha sempre ricordato i viaggi continui in Italia.

“Mi ricordo i viaggi velocissimi con lui. Passavamo da città e paesi, a Nord come a Sud, sempre di corsa, con comizi continui sulla liberà e la ricostruzione. La gente che correva dietro la macchina, ci fermava”.

Suo padre aveva timore che potevano vincere gli altri?

“Tutto l’associazionismo cattolico si mobilitò. Votarono per lui non solo i democristiani, ma anche coloro che erano contrari alla Dc e che, però, sentivano forti la paura del comunismo e il bisogno di libertà. Alla fine andò benissimo. E lui commentò: “Pensavo che piovesse, non che grandinasse“”.  

Dal trionfo del ’48 all’ultimo viaggio in montagna: come è stata l’uscita di scena di suo padre?

“Quando il suo ciclo politico si avviava a finire, non stava già bene in salute e questa era la cosa peggiore. Durante l’ultimo discorso a Napoli aveva il medico dietro: a un certo punto gli dovettero fare anche un’iniezione. Da un po’ il partito cominciava a guardare da un’altra parte. La sua strada personale era finita e nel partito c’erano idee nuove”.

C’è un po’ di amarezza verso i giovani, scalpitanti leoni che presero in mano la Dc sul finire dell’era degasperiana?

“No. Succede sempre così quando uno ha dato tutto di sé e a un certo punto non serve più o non piace più. Mio padre aveva compiuto la sua opera”.

Suo padre si sentì un po’ messo da parte?

“No. Io ho sentito una forma di abbandono quando siamo partiti da Roma per andare, l’ultima volta, in montagna. Quando si partiva per andare a Sella alla stazione c’era un tappetino rosso con le guardie. Quel giorno il tappetino rosso non c’era più. Mi diede l’impressione che era finita. Andammo a Sella e visse un mese e qualcosa ma il cuore non reggeva già”.

Fu lucido fino alla fine?

“Ha avuto una fine chiarissima. Gli ultimi giorni stava a letto. Io ero quasi sempre lì, nella stanza, leggevo o facevo finta. Abbiamo parlato anche in silenzio, nel silenzio dell’attesa della sua fine. Ha fatto spostare il letto per vedere dalla finestra della sua stanza, in cima alla montagna, un crocifisso che lui stesso aveva fatto collocare. Un giorno la mamma ci ha chiamato e ha detto: “Papà non sta bene”. Era seduto in questo letto e ha fatto un cenno. Aveva un libro di meditazione: aveva messo il segno e una delle mie sorelle ha letto e lui ha ripetuto le ultime parole della lettura: “Gesù, Gesù”.  Lo ha detto forte e ha chiuso gli occhi. Ha tenuto le mani alla mamma per dire: “Ti saluto”. Una morte serena, aspettata, saputa. E chi piangeva era il dottore che era venuto quella sera per fargli un’iniezione. Guardava dalla finestra e piangeva”.

Quando morì, l’Italia si inginocchiò ai suoi piedi. Le stazioni, al passaggio del feretro, erano gremite di migliaia di persone in preghiera.

“Sì. Quando è mancato mio padre ci sono stati tre funerali. Uno al paese dove è morto, un altro a Trento e un altro a Roma. E’ vero, la gente piangeva. A Roma un funerale immenso migliaia di persone al seguito di questa carrozza nera fino alla Chiesa del Gesù”.

L’ultimo rimpianto politico di suo padre: quale è stato? 

“Prima di morire, il suo grande dolore, il suo dispiacere, è stato non veder nascere la Comunità di difesa europea. Ricordo, mentre erano in corso le trattative di Parigi sulla vicenda, alcune sue telefonate con le lacrime agli occhi. Era la prima volta che l’ho visto piangere e diceva: “Se fossi là io, saprei che cosa fare e che cosa dire“. Ma non aveva più poteri e i nostri rappresentanti non erano così forti delle loro idee, così coraggiosi da convincere i francesi ad andare avanti fino in fondo”.

Lo sguardo finale all’Europa.

“Sì. Lui era sicuro che se l’Europa avesse avuto un esercito comune, sarebbe stata diversa e più unita, fin da allora. Pensi che nelle riunioni si era arrivati a parlare già delle divise dei soldati europei. Avevano anche stabilito chi avrebbe comandato l’esercito comune: a turno. Certo, ci fosse stato lui a trattare a Parigi, sarebbe andata diversamente. Mio padre credeva moltissimo nell’unità dell’Europa e se fosse riuscito a portare tutti dove lui voleva, ci sarebbe stato quel salto che manca, forse, ancora oggi”. 

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