Emergenza rifiuti a Roma, una questione di governo

Certo, anche la seconda opzione equivarrebbe alla fine politica della sindaca o, meglio, certificherebbe una fine già nelle cose: a giugno, prima delle ultime crisi dei rifiuti, il consenso per la Raggi era dato nei sondaggi al 15%, una percentuale ormai persino al di sotto della militanza grillina, con un 60% di romani pentiti di averla votata.

Purtroppo non sono alle viste sussulti di responsabilità. Luigi Di Maio si gira dall’altra parte, imbarazzato. E il ministro Stefano Patuanelli si avventura addirittura in una difesa della «sindaca del cambiamento che ha riportato la legalità dopo Mafia capitale»: un vero ceffone ai romani, assestato da un triestino evidentemente poco pratico delle vie di Roma fuori dai palazzi del potere. Se la rivendicazione della legalità appare infatti risibile (la Raggi ha sempre sbagliato collaboratori, da Raffaele Marra fino all’avvocato Lanzalone) è poca cosa rispetto all’affaire rifiuti, ormai triste simbolo della capitale.

In questi ultimi mesi almeno due studi indipendenti hanno centrato il cuore del problema. Walter Tocci, nel volume curato da Domenico De Masi «Roma 2030», spiega proprio come le «promesse tradite» sui rifiuti (e i trasporti) possano portare a forme anche plateali di rivolta civile. Il Cresme nel raffronto tra la capitale d’Italia e le grandi metropoli europee ha evidenziato come l’Urbe, in fatto di spazzatura, indossi da tempo la maglia nera.

Certo, governare Roma è difficile. Nessuno poteva pretendere che un’inesperta avvocata avesse la bacchetta magica all’esordio. Tuttavia, dopo tre anni, un bilancio è inevitabile. E la crisi ricorrente del sistema rifiuti romano è la prova più vistosa di una inadeguatezza al governo della cosa pubblica: persino più della Caporetto su bus e metro. Virginia Raggi le ha inanellate tutte. Partita male con Paola Muraro assessora, ha continuato con una girandola di assessori e manager della municipalizzata Ama, sino al paradosso di tenere per sé da mesi la delega all’Ambiente dopo le dimissioni polemiche dell’ultima della fila, Pinuccia Montanari. Le dichiarazioni dell’ennesimo manager Ama in fuga sono impietose quando lamentano un trattamento da «nemico» del Campidoglio e svelano che l’obiettivo vagheggiato della raccolta differenziata (il 70% nel 2021!) non ha alcun rapporto con la realtà. Proprio la formula semplicistica e pauperistica della differenziata come unico mantra (niente impianti, niente discariche) ha esasperato la crisi, perché ha giustificato l’assenza di qualunque strategia, di qualsiasi coordinamento con la Regione di Nicola Zingaretti. Attenzione: nemmeno Zingaretti, nel suo ruolo di governatore del Lazio, è esente da critiche. Si è nascosto dietro la Raggi evitando accuratamente qualsiasi decisione impopolare (il j’accuse dei manager dimissionari non risparmia neppure lui): per paradosso, il suo Pd su Roma rischia un conto salato quasi quanto quello dei grillini. Ora siamo all’ultimo giro di boa.

La capitale non può permettersi di non essere amministrata ancora per un anno e mezzo (quanto manca alle prossime elezioni in Campidoglio). Né può rassegnarsi a convivere con la spazzatura a ogni angolo e con gli animali selvatici che ormai scorrazzano in centro come in un film distopico. Se i due soci di governo coinvolti nel disastro continueranno a scantonare, toccherà a Giuseppe Conte una mossa che sblocchi la situazione: l’unica realistica è un commissariamento che superi d’imperio la guerriglia tra Campidoglio e Regione. Probabilmente bisognerà poi immaginare per Roma una governance diversa: forse aperta verso il basso, dando potere vero ai suoi municipi grandi come medie città italiane, e verso l’alto, con un distretto-regione che dia alla capitale la forza di Washington o Parigi; forse il Comune che conosciamo ha esaurito la sua funzione ben prima della Raggi. Ma questa è architettura istituzionale, sarà il futuro che sogniamo, sarà dopodomani. Da domani però, mamme, bambini, anziani e cittadini romani tutti non possono aspettare a mollo nel percolato. Se i due alleati di governo pensassero di chiamarsi fuori dalla questione Capitale commetterebbero un errore esiziale per il nostro futuro: ma anche per il loro.

CORRIERE.IT

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