“Boris Johnson è ‘unfit’ a guidare la Gran Bretagna”. Parola di Bill Emmott che lo aveva detto di Berlusconi

“Penso che Boris Johnson sia unfit. Ha mostrato in queste prime settimane di non essere davvero capace di fare il mestiere. Magari può impararlo: tutti i primi ministri hanno bisogno di un po’ di tempo per orientarsi. E, da un punto di vista meramente tecnico, ha tutto il diritto di essere a capo del Paese: è un membro del parlamento, il partito Conservatore lo ha eletto come guida e non è un criminale. Ma l’inizio è stato pessimo: ha dimostrato di non essere in grado”.

Qual è stato l’errore peggiore?

“Credo che chiedere al fratello di entrare a far parte del proprio governo sia stato uno sbaglio terribile, che ha dimostrato tutta la sua inesperienza. Il fratello aveva dato le dimissioni dal governo precedente chiedendo un referendum sulla Brexit, segnalando la propria contrarietà a lasciare l’Unione europea e a come le trattative venivano condotte. Chiedergli di entrare in un gabinetto successivo, forse per dimostrare il supporto della famiglia, era una bomba a orologeria: era solo questione di tempo prima che esplodesse. Quando in effetti è successo, dopo pochi giorni, c’è stato poi anche l’imbarazzo. Ma bisogna anche essere onesti: la situazione è impossibile”.

Boris Johnson

Eppure nel 2016 il referendum per lasciare la Ue passò col 52%. Cosa ha determinato l’impasse?

“Dalle elezioni del 2017, i conservatori non hanno una maggioranza in parlamento: sono stati solo governi di minoranza. Boris Johnson ha ereditato questa situazione e qualsiasi gruppo di parlamentari, pro o contro la Brexit, più bloccare le sue risoluzioni, quindi la situazione è realmente bloccata. L’unica cosa sensata sarebbe indire nuove elezioni”.

Ma la scadenza incombe: il 31 ottobre, Londra deve dire addio alla Ue. Per sua stessa scelta.

“Abbiamo bisogno di un nuovo parlamento, perché questo non riesce a mettersi d’accordo. E dobbiamo chiedere alla gente di eleggerlo. Ma credo che andare a votare sotto la pressione della scadenza sia inaccettabile, sarebbe un errore”.

Quindi?

“Il Parlamento ha fatto bene ad approvare una legge che chiedesse una estensione della deadline per la Brexit, in modo da permettere di andare al voto e lasciare che sia il nuovo parlamento, e governo, a gestire la cosa. Questa è la cosa democratica, e responsabile, da fare”.

Pensa che ci vorrebbe un secondo referendum sulla Brexit?

“Personalmente sì, sono a favore, perché la situazione nei tre anni trascorsi da quel voto è cambiata molto, e le persone sono ora informate sulle vere questioni. Abbiamo capito che il problema della Brexit sono le scelte incompatibili l’una con l’altra: per esempio mantenere il Nord Irlanda nel Regno Unito ma evitare un confine tra l’Irlanda e l’Europa. Quindi adesso le persone possono davvero esprimere un parere”.

Come si ottiene un nuovo referendum? Johnson e questo governo non sono certo intenzionati a convocarlo.

“L’unico modo sono nuove elezioni generali”.

E l’esito sarebbe lo stesso della prima volta? Scegliereste ancora di uscire dalla Ue?

“No, credo di no. Ovviamente non posso esserne sicuro al 100%, ma penso – e i sondaggi sembrano suggerirlo – che la gente abbia capito che la Brexit è molto più complicata di quello che immaginavano e che i benefici del lasciare l’Unione europea non sono quelli che credevano. Il che, probabilmente, li farebbe cambiare idea in caso di un secondo voto”.

Anche Jeremy Corbin, il leader dei laburisti, in un primo momento è stato vago sulla Brexit: ci ha messo molto a dichiarare di essere contrario. Crede che adesso sarebbe seriamente intenzionato a convocare un secondo referendum?

“Penso che sia chiaro che il Labour party includerà un nuovo referendum sulla Brexit nel proprio programma elettorale. Quindi, dopo le elezioni, se i conservatori non dovessero vincere, è molto probabile che un governo guidato dal Corbin indirà una nuova consultazione”.

E se invece niente di tutto questo dovesse accadere? Cosa succederà se uscirete dall’Europa?

“Dipende tutto dagli accordi che saremo stati in grado di fare, e quindi anche da quando succederà. Se non ci dimostreremo stupidi, la situazione non sarà troppo diversa da quella attuale. Da un punto di vista economico, se facessimo come la Norvegia, con un’integrazione stretta con la Ue e restando membri del mercato unico, ma con la possibilità di determinare le nostre politiche su alcuni temi, non ci sarebbero cambiamenti rilevanti: la situazione sarebbe determinata non tanto dalla Brexit quanto da altre politiche del governo”.

E se invece non si trova alcun accordo? Cosa succede con il No deal?

“In caso di un No deal, con il ritorno dei dazi e delle barriere, il nostro futuro sarebbe decisamente peggiore, e dovremmo aspettarci una considerevole perdita di posti di lavoro e di ricchezza. Il problema del No deal è che non è un punto di arrivo, ma è un processo. L’idea alla base del No deal è infatti escludere la possibilità del “Remain”, dal tavolo dei negoziati. Secondo Boris Johnson e chi la pensa come lui, una volta acclarato che non resteremo, si potrà iniziare a negoziare. E tuttavia, una volta deciso di restare fuori dal mercato unico, è difficile capire come trovare un’intesa sul confine irlandese. Insomma, come dicevo prima: le scelte sono incompatibili”.

Boris Johnson, Donald Trump, Matteo Salvini, Marine Le Pen e i Gilet Gialli in Francia: si potrebbe continuare, ma la questione è evidente. Da dove arriva tutta questa rabbia?

“La risposta è semplice: dalla crisi finanziaria del 2008, la peggiore in 80 anni. Una crisi che ha ridotto il reddito delle persone e che ha soprattutto segnato la loro fiducia nel futuro e nelle istituzioni. Il livello di insicurezza e insoddisfazione varia a seconda dei Paesi e delle politiche che adottano: in Italia, per esempio, sono 20 anni che i redditi medi non salgono e sono ancora inferiori ai livelli del 2008. In Gran Bretagna stanno tornando ora al livello pre crisi, ma chissà cosa succederà. In America il problema delle disuguaglianze è enorme: la stessa elezione di Obama fu una risposta a quella crisi, ma poi non è stato fatto abbastanza. C’è poi un secondo elemento: la crisi del 2008 ha anche privato i governi delle risorse per contrastare concretamente quelle disuguaglianze e quelle privazioni. Quando più ce n’era bisogno, quando bisognava intervenire sulla disoccupazione troppo alta, o per alleviare i problemi di una popolazione che invecchia, o di differenze regionali, i governi non avevano il denaro per farlo. E non hanno fatto altro che tagliare, tagliare e tagliare. Boris Johnson ha annunciato con orgoglio che aumenterà il numero di poliziotti nei prossimi cinque anni: gli hanno fatto notare che alla fine di quel processo saranno ancora meno che prima della crisi”.

Nemmeno i governi populisti, però, hanno le risorse per intervenire.

“Il problema è che molte delle questioni di questi giorni affondano nel tempo: la globalizzazione, l’automatizzazione, l’invecchiamento della popolazione. Una volta comprese le urgenze, i governi del passato avrebbero dovuto fare qualcosa. Ma avevano speso tutto il denaro per salvare le banche, evitando una Depressione ancora peggiore. Il populismo che abbiamo visto in questi anni è una risposta disperata a questa situazione: come dire ai governanti “Voi avete fallito, ora siamo pronti ad ascoltare questi altri: non sappiamo dove ci porteranno i loro messaggi, ma proviamo le loro soluzioni”.

Il che significa che la risposta al populismo coincide con la risposta ai problemi di fondo.

“Molti collegano il populismo ai social media, perfino alla democratizzazione del dialogo attraverso i social. Certamente è vero, ma penso che la cosa che più ha determinato il populismo sia stata l’incapacità dei governi di rispondere ai bisogni. E quindi sì, se i governi saranno capaci ora di affrontare le situazioni di fondo, Marine Le Pen – tanto per fare un esempio – non vincerà le prossime elezioni”.

BUSINESS INSIDER

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