E se ci fosse lo zampino di Salvini?

Alessandro Sallusti

Ancora non sono soci e già litigano come dei forsennati. Di Maio, non contento dei disastri combinati finora, e avendo capito che se va avanti così sarà la sua tomba politica, alza l’asticella della trattativa con il Pd nella segreta speranza che salti tutto.

Il motivo è chiaro: il nuovo asse politico è tra il premier incaricato Conte e il Pd.

Lui in un eventuale nuovo governo non toccherebbe palla e non è escluso che lo spediscano pure in tribuna, luogo che peraltro ben conosce avendo frequentato quella dello stadio San Paolo nelle vesti di bibitaio durante la sua precedente esperienza professionale.

Di Maio si sente accerchiato, e non a torto. I parlamentari grillini folgorati sulla via di Renzi lo guardano con diffidenza per non aver lui saputo né voluto recidere il cordone ombelicale che lo lega a Matteo Salvini, manco fosse il suo gemello monozigote. Sospetto che lo stesso Di Maio non ha fugato, semmai alimentato, quando l’altro giorno uscendo dalle consultazioni al Quirinale ha detto: «Rivendico con orgoglio tutto quello che abbiamo fatto con il nostro governo», dove il «nostro» pareva riferito più a Salvini (contro il quale non ha mai detto una sola parola di biasimo) che non a Conte o ai Cinque Stelle.

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