Le illusioni e gli errori alla base della crisi italiana

Arriva il giorno dell’esame. I sei vengono fatti accomodare «alla spicciolata come fossimo in un salottino» e attraverso i loro balbettii e imbarazzi è subito evidente che dell’opera cinematografica di Pasolini essi in pratica non sanno nulla. Il colloquio culmina nell’invito rivolto dal professor X a Delbecchi di parlare di Teorema , invito che ha per tutta risposta queste uniche, memorabili parole:«Teorema…è un film teorematico…» . «Una decina di minuti dopo, trascorse un paio di ovvietà a testa sulla Trilogia della vitae la sua abiura, il professore ci riconsegnò il libretto in bianco: “Scrivete voi. Poi io firmo”». Pur con qualche pudica esitazione i sei osano: «Trenta?», il professore fa «un’ultima panoramica del gruppo di esaminandi seduti davanti a lui» e poi conferma: «Trenta». «E trenta fu». Conclude Delbecchi: «Il professor X ci aveva dato una lezione».

Mi riesce davvero difficile capire quale. Ma che oggi, nel 2019, un simile episodio possa essere ricordato con il compiacimento e con la conclusione che ho appena riferito mi pare indicare più di mille analisi raffinate perché l’Italia si trova nelle condizioni in cui si trova. Mi chiedo infatti come avrebbe mai potuto un Paese in cui perlomeno nelle facoltà non scientifiche (mi auguro che almeno a Medicina o a Ingegneria le cose andassero un po’ diversamente ) le future classi dirigenti hanno compiuto degli studi conclusi da simili esami, come avrebbe mai potuto un Paese simile non ritrovarsi oggi avviato irresistibilmente al declino.

Non tanto per il fatto in sé, al limite. Non tanto, cioè, perché con un simile modo di fare gli esami decine di migliaia di giovani italiani si sono abituati ovviamente a non studiare, uscendo quindi dall’Università sapendo poco o niente. E neppure perché di conseguenza ignoranza e impreparazione hanno da un certo momento in poi iniziato a dilagare indisturbate anche ai vertici della società, della politica e dello Stato italiani. Ma per un’altra ragione: perché l’andazzo universitario così ben descritto da Delbecchi ( a cui ha più o meno corrisposto quello dell’intero sistema scolastico nazionale ), quel lassismo compiaciuto, accettato e perfino promosso dall’alto, che altro effetto ha potuto avere, mi domando, in chi si è trovato a sperimentarlo, se non quello di inoculargli i germi del disprezzo per le istituzioni e per la loro sgangherataggine? se non quello di apparire la prova della pusillanime inconsistenza di queste, dell’inutilità di ciò che in esse si fa, dell’ipocrisia delle loro regole che prescrivono una cosa ma poi ne tollerano tranquillamente una opposta?

E’ facile immaginare che cosa abbia voluto dire per centinaia di migliaia d’italiani, nei decenni passati, il fatto che il loro primo incontro da adulti con la dimensione pubblico-statale sia stato quello con un’università di tipo delbecchiano , se così posso chiamarla. E’ facile immaginare l’impressione immediata di entrare in un universo fondato sulla finzione, su un regime di doppia verità tra la forma e il contenuto , tra il dire pomposo del discorso ufficiale e il misero riscontro della realtà. In complesso una lezione perfetta d’ipocrisia e di conformismo. E naturalmente di asineria: come si spiegherebbero altrimenti i concorsi per diventare avvocati, magistrati, professori, dove i componimenti di un gran numero di candidati fanno registrare da anni svarioni memorabili, cantonate e castronerie madornali.

Eppure oggi per una persona come Nanni Delbecchi — con l’accordo, sospetto, di una parte significativa dell’opinione pubblica — il suo ridicolo esame di tanti anni fa è solo motivo di una divertita nostalgia. Non solo, ma di ammirazione per quel suo professore impegnato inconsapevolmente, per pura bigotteria ideologico-politica, a ridicolizzare la propria materia, lo studio, l’università. Il quale così facendo gli avrebbe addirittura impartito una «lezione»: ma quale, di grazia?

In realtà la dice lunga sul nostro Paese questo suo continuare a cullarsi imperterrito nelle idee e nei modi del passato, a ripercorrerne instancabilmente i miti e a riverirne i feticci ormai decrepiti. Vittime di un perenne reducismo consolatorio non riusciamo a staccarci da ciò che è stato e che siamo stati, a farcene critici come invece dovremmo. Perché è questa la ragione fondamentale che c’impedisce di capire le ragioni della nostra crisi interminabile e quindi di superarla: non voler vedere che essa affonda le radici in un quantità di illusioni e di errori di tanti anni fa, di decisioni sbagliate che prendemmo allora o di cambiamenti che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto. Mentre intorno a noi tutto cambia noi abbiamo paura di cambiare, di cambiare noi stessi per conquistare gli orizzonti di una nuova vita. Ma piuttosto che una nuova vita a noi interessa cullarci interminabilmente nella nostra accidiosa nostalgia.

CORRIERE.IT

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