Notte fonda sull’accordo

 È questa la fotografia, quando la delegazione del Pd, col segretario e il suo vice Andrea Orlando varcano la soglia a palazzo Chigi alle nove di sera per incontrare Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, i padroni della casa finora abitata con la Lega, dove si inneggiava alla chiusura dei porti. E quando escono. Due partiti che trattano senza aver spiegato al paese le “ragioni” di questo compromesso assai poco storico, probabilmente perché non ci sono ragioni che non siano la paura di perdere le elezioni e una legittima brama di potere. La teoria, immaginiamo, sarà elaborata pret a porter, dopo aver trovato la quadra su ministri, viceministri, sottosegretari, dai cantori della “responsabilità nazionale”. Del resto è difficile ammantare di profondità culturale, visione e passione, un’operazione che, citando Berlinguer, assomiglia a un atto osceno in luogo pubblico. Basta raccogliere le voci, gli spin, le liste di ministri, zeppe  di gente che fino a due settimane fa si insultava, “quelli del partito di Bibbiano” e quelli del “mai con voi cialtroni”.

 Il punto è questo. All’incontro del tardo pomeriggio Di Maio, non si capisce se per far saltare tutto o per alzare la posta, chiede Interni per sé (con tanto di ruolo di vicepremier), commissario europeo e dice che Conte va conteggiato come figura terza, come fosse un tecnico. Zingaretti se ne va e chiede un incontro tra delegazioni, che inizia alle 21,00. Dove lo stesso nodo non viene sciolto. Il segretario del Pd è disponibile a dire di sì a Conte purché il nuovo governo non sia un rimpasto del precedente, coi rossi al posto dei verdi, ma ci sia una nuova agenda e un nuovo assetto, in discontinuità rispetto ai 14 mesi che abbiamo alle spalle. Tradotto, bene Conte ma è in quota Cinque Stelle, poi vicepremier unico e caselle chiave al Pd. E nuovo programma. Per il ruolo di vicepremier è già partita, nel Pd, la gara tra Orlando e Franceschini. Chi dei due non lo fa vorrebbe andare al posto di Giorgetti, come sottosegretario a palazzo Chigi. Se nascerà, nel nuovo governo ci saranno renziani duri (Marcucci ambisce), renziani morbidi (Guerini), ministri che sono stati con Salvini, da Bonafede a Fraccaro, qualcuno di Leu, dove si segnala il grande attivismo di Piero Grasso che vorrebbe Giustizia o Difesa.

 Questa è la cronaca degli appetiti. Da incrociare con quelli dei Cinque stelle. A notte fonda l’accordo è lontano. Il Pd chiede di discutere tutto l’insieme. Di Maio, invece, prima il “via libera a Conte, poi il resto”. È così che finisce, con un possibile nuovo round tra poche ore. La notizia politica è che Zingaretti non ci sarà. Lo ha spiegato ai suoi, con fermezza e decisione: “Non farò il vicepremier”. Anche a quelli più vicini al suo cuore, come Goffredo Bettini, che gli hanno suggerito di entrare perché un’accozzaglia del genere ha bisogno di un perno di governo, anche per non essere nelle mani di Renzi, il cui disegno lo hanno capito anche le creature: facciamo la proporzionale poi ho le mani libere, per fare la scissione o se ci sono le condizioni per riprendere il Pd, visto che si farà un congresso prima della fine della legislatura. In fondo, ha portato il Pd sulla sua linea, riprendendoselo “politicamente”.  

 Merita qualche parola Zingaretti, in queste giornate eterne. La sua linea è stata sconfitta. L’idea cioè di costruire una alternativa alla destra, intercettando, nella battaglia nella società, la crisi Cinque stelle. I suoi lo hanno spinto all’arrocco col ceto politico pentastellato che il popolo lo ha perso in questo anno, certificando per l’ennesima volta che il Pd è un partito retard, nato con dieci anni di ritardo, poi approdato all’abbraccio con i Cinque stelle fuori tempo massimo di sei anni (ricordate il 2013) o di uno (ricordate il 2018). E ci arriva quando le periferie e il “popolo” ha salutato Di Maio per andare con Salvini. Però, nell’ambito di questa sconfitta, una cosa Zingaretti la sta rendendo plastica.

 Diciamola in modo un po’ grezzo: io, è il senso del suo ragionamento, ce la sto mettendo tutta per fare un governo decente, come voi del mio partito mi avete chiesto, come vedete sono gli altri (i Cinque Stelle) che rendono complicato farlo, divisi tra Conte e Di Maio, Grillo e Di Battista. Anzi ancora non si capisce se Di Maio lo vuole fare o vuole far saltare il tavolo. È questa l’impressione quando a tarda notta finisce l’incontro. Alla fine questa roba ve la porto in direzione, ma io non ci sarò dentro. Not in my name. E in questo c’è già un giudizio sul governo che nascerà. Renzi si tiene le mani libere, Zingaretti a sua volta non ci entra. Nasce già, se nasce, come un governo debole.

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