L’assedio

Complicato, certo, tornare indietro, senza apparire un segretario dimezzato. Eletto per costruire un’alternativa che intercetti il popolo deluso dai Cinque stelle si ritrova mezzo partito che vuole l’arrocco col ceto politico pentastellato, dopo il suo fallimento e l’abbandono della metà dei suoi elettori. Insomma, la rinuncia a giocare, nelle urne, una partita che, secondo i sondaggi (prontamente twittati in mattinata da Paolo Gentiloni, non a caso) non è impossibile, con un po’ di coraggio. Però, dicevamo, ci sono le dimensioni dell’assedio: “Ci manca solo Bergoglio – dicono al Nazareno – ma la spinta è fortissima, dai vescovi alle cancellerie europee, passando per Prodi, Franceschini e gli ex ministri che sognano di tornare al governo”. Anche un certo giro quirinalizio. In particolare sono state notate le parole di Pierluigi Castagnetti, storico amico del presidente del Repubblica, che ha affidato a un paragone storico il suggerimento per l’oggi: “Nel 1976 Berlinguer (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità”. È chiaro il riferimento a Conte.

Parliamoci chiaro, in questa crisi strampalata e irrituale. A questo punto, complice la scarsa compattezza interna al Pd, l’alternativa è: o Conte o salta tutto. Al momento. Sono queste contraddizioni dentro il Pd, che sembra aver paura del voto più dei Cinque Stelle, che consentono a Di Maio di alzare un muro, nella convinzione che l’altro (di muro) sia destinato a franare. Così gli dicono i suoi ambasciatori che tengono i canali aperti col Pd, come Vincenzo Spadafora, in contatto diretto con Dario Franceschini, col quale la consuetudine risale sin dai tempi in cui entrambi erano nella Margherita.

È anche lungo questa linea telefonica che la trattativa affronta il nodo dei ministeri, sia pur in un clima di gran confusione. L’uomo ombra di Luigi Di Maio esplicita ciò che il suo capo aveva accennato nella telefonata mattutina a Zingaretti e cioè che il via libera a Conte verrebbe ricompensato dando al Pd i ministeri chiave, ipotesi che poi viene smentita nel pomeriggio, sempre da ambienti vicini a Di Maio, quando la trattativa si complica: “Ci stanno dicendo – spiegano al Nazareno – ‘dateci Conte e noi vi diamo tutto il cucuzzaro’, ma la verità è che, incassata la casella principale, poi, una volta che ci siamo consegnati, alzeranno il tiro sui ministeri”.

Non c’è una trama limpida, un confronto alla luce del sole, politico e di agenda. C’è un’orgia di spin, per cui i Cinque stelle lasciano anche trapelare la loro lista di governo con Di Battista dentro, segno che anche lì dentro è un inferno, tra il “partito di Conte”, il partito Di Maio” e “il partito del voto di Di Battista”. È tutto un vociare scomposto su nomi e poltrone, senza uno straccio di confronto su un’idea di paese (a proposito di “compromesso storico”), rinviato a un tavolo domani tra i capigruppo dei due partiti e all’incontro tra Zingaretti e Di Maio. Forse. Ma sono gli sricchiolii dentro il Pd che consentono di buttare la palla nel campo altrui, stressando il clima: “L’Italia – dicono i Cinque stelle – non può aspettare il Pd”. Scricchiolii che hanno il volto di Matteo Renzi, con i suoi scatenati al tavolo pomeridiano dei programmi, in nome del governo a tutti i costi, tra chi dice “subito il taglio dei parlamentari” e chi rinnega il jobs act. Perché l’ex segretario ha capito che, se parte il governo, non ha più neanche bisogno di fare la scissione. È il Pd che, se così dovesse andare a finire, al primo passaggio politico vero si scinde dal suo segretario, tornando sulla linea del precedente.

Ecco il bivio. Per ora Zingaretti tiene, andrà a vedere nell’incontro con Di Maio ponendo il tema della “discontinuità”. Alla direzione di martedì, l’ora della verità: quanto c’è di nuovo nel suo Pd o quanto risorgerà il vecchio, con le solite grisaglie ministeriali del governo per il governo.

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