Salvini e Di Maio, la solitudine dei numeri 2

Vice uno, vice l’altro. Ma convinti tutti e due, uniti da un patto generazionale oltre che politico, d’essere in realtà ciascuno il «vero» Presidente del primo Governo vice-presidenziale (copyright Fabio Bordignon) della Repubblica. E tutti e due, in momenti diversi, pronti a rivendicare la propria supremazia. Nella prima fase l’ex venditore di bibite dello stadio San Paolo, che si picca d’avere scelto personalmente, posandogli sulla spalla la spada Gioiosa, «l’avvocato del popolo Giuseppe Conte» e declama: «Sul contratto sta andando tutto bene. Naturalmente stiamo scrivendo la storia per cui un po’ di tempo ci vuole». La storia… Poi l’ex comunista padano e neo-sovranista, che a ogni porto chiuso cresce nei sondaggi e vince elezioni locali a ripetizione e allaga il web invitando i suoi fedeli a inviare a lui personalmente, il Capitano, le foto dei loro «bambini felini» (geniale una risposta: «Molti mici, molto onore») finché comincia a battere e ribattere su un tema: chi comanda sui porti? Lui. Altro che il ministero dei Trasporti o quello della Difesa: «Siccome io sono l’autorità nazionale garante della pubblica sicurezza, la decisione su chi entra e chi esce è mia». «I ministri dei Cinque Stelle sono brave persone, oneste e con la voglia di cambiare il Paese. Ma se i porti si chiudono o si aprono lo decido io». «Se ho ricevuto telefonate per sbloccare il nuovo sbarco? Ho tanti difetti, ma decido con la testa mia». Sempre più anche su temi estranei al Viminale. Basti ricordare il brusco richiamo salviniano sui mini-bot, per bocca del fedelissimo Claudio Borghi, al ministro Giovanni Tria: «È giusto che un tecnico abbia le sue idee, ma la responsabilità politica è nostra: decidiamo noi».

Non andò tanto diversamente, ricorda Luciano Canfora nel suo libro «Giulio Cesare. Il dittatore democratico», il consolato del 59 a.C., quando furono eletti da una parte l’autore del «De bello Gallico» e dall’altra appunto Marco Calpurnio Bibulo. Non si sopportavano. Andarono presto alla rottura. E questa, in un clima sempre più incandescente dove i nemici di Cesare rilanciarono anche una vecchia maldicenza allusiva sui suoi rapporti con Nicomede IV di Bitinia, fu «così irreparabile e drammatica che Bibulo si barricò in casa emanando durissimi quanto impotenti editti contro il collega» mentre Cesare prese a governare da solo e, scriverà Svetonio, «a suo pieno arbitrio». Tanto che il consolato che di solito era ricordato coi nomi dei due consoli, passò come quello «di Giulio e Cesare». Andrà così anche questo giro? Nella scia del voto alle Europee molti avrebbero scommesso fino a un paio di settimane fa sulle elezioni anticipate e su un nuovo consolato unico «a pieno arbitrio». Ma lo stesso leader della Lega, tra collaboratori perplessi, non è più così sicuro. E non c’è chi non abbia visto l’altro pomeriggio, dietro le mille smorfie fatte per mascherare la collera furibonda che lo possedeva mentre Giuseppe Conte lo infilzava con lo spadino del torero, un vistoso sbandamento. Magari non il «terrore di essersi infilato in un tunnel senza uscita» descritto dai nemici: quella è propaganda. Il dubbio d’aver sbagliato i tempi, però, ora ce l’ha. Il timore d’aver sottovalutato la risposta dei parlamentari che aveva invitato giorni fa ad «alzare il culo» per accorrere a farsi licenziare, ora ce l’ha. E così quello d’averla fatta grossa, forse rintronato dalla musica sparata del Papeete Beach, nell’invocazione dei «pieni poteri». Una fanfaronata dai ricordi sinistri che da giorni cerca, quello sì disperatamente, di sopire.

E’ la solitudine, però, quella che pesa di più. Certo, una solitudine strapiena di leghisti, fedeli, ammiratori, camerati. Un grande zoccolo duro. Ma intorno? Sicuro che i famosi «moderati» siano disposti a seguirlo su percorsi sempre meno sereni e più avventurosi, come quello rilanciato ieri dell’uscita dall’euro? E sarebbe sul serio in grado, Salvini, di reggere ancora per mesi e mesi una campagna elettorale durissima e costosissima (sul groppo restano quei 49 milioni di debiti…) senza più gli enormi vantaggi degli aerei blu, delle auto blu, delle moto d’acqua blu? Magari senza quelle spintarelle quotidiane che gli vengono dalle tivù? Vale per lui, vale per Luigi Di Maio. Che dopo avere a lungo maramaldeggiato, forte dell’investitura di Beppe Grillo, dentro il suo stesso partito sempre più percorso da inquietudini, rischia oggi di pagare care la vanità di promettere «un nuovo boom economico come quello degli anni Sessanta» e gli appelli spericolati ai piazzaroli francesi («Gilet gialli, non mollate!») e le retromarce su antiche promesse («Se mi vedete in auto blu linciatemi») e le urla di giubilo sul balcone (il balcone!) di Palazzo Chigi al grido di «oggi è cambiata l’Italia! Abbiamo portato a casa la Manovra del Popolo che per la prima volta nella storia di questo Paese cancella la povertà!»

Come andrà a finire non si sa. Probabilmente neppure Mattarella, nella sua saggezza, lo sa. Certo è difficile che, per come si son messe le cose negli ultimi giorni, possano avverarsi le tonanti sicurezze salviniane: «Si rassegnino i compagni: governeremo per i prossimi 30 anni…». È già sceso a dieci. Poi si vedrà…

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