Ci sarà davvero la recessione? Tutti i segnali negativi: dalla curva dei tassi all’Argentina, i «cigni neri» della finanza

La Banca centrale vede ora un Pil in aumento dell’1,3% sia nel 2019 sia nel 2020, mentre in precedenza stimava una crescita dell’1,5% per quest’anno e dell’1,6% per il 2020. Il rischio di una recessione, sia in Gran Bretagna, che nelle aree dell’Unione europea maggiormente interconnesse con gli scambi Oltremanica non è escluso.

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La crisi politica italiana (e il debito pubblico)

L’Italia a giudizio di molti è il Grande Malato d’Europa. Ancora pochi giorni fa l’ex ministro dell’economia Pier Carlo Padoan ha dichiarato che l’economia italiana «è la più fragile tra quelle dell’eurozona». In un contesto di crescita attesa del Pil 2019 pari allo 0,1% (ma non dimentichiamo che a fine luglio l’Istat ha certificato una crescita zero) basta poco per veder ripiombare l’economia del Paese nella recessione. Roma viene da due trimestri di crescita negativa (quarto trimestre 2018 e primo 2019), la cosiddetta recessione tecnica. La crisi di governo, la mancanza di una politica di sviluppo credibile e di lungo periodo, la forte dipendenza della crescita economica dalle esportazioni (minacciate dalla guerra commerciale tra Usa e Cina e dalla possibile recessione in Germania) aprono scenari molto pericolosi sul versante del debito pubblico che a fine 2018 era risalito al 132,1%. A giudizio della Commissione europea, senza interventi correttivi e nello scenario più negativo il rapporto debito/pil potrebbe andare addirittura al 135%

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La frenata della Germania

Spettro recessione: dopo l’estate più calda della sua storia, in Germania si annuncia un autunno di fuoco. Il colosso economico al centro del Vecchio Continente, la locomotiva tedesca con il mito della stabilità, ha la febbre alta. L’ultimo dato è il calo, superiore alle aspettative, del Pil, caduto nell’ultimo trimestre allo 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti, come calcolato dall’istituto statistico federale. Siamo a un passo dalla recessione: tra i motivi, la forte flessione delle esportazioni, cadute più delle importazioni. Tutti gli indicatori, segnala lo Handelsblatt, dicono che il prossimo trimestre andrà pure peggio: a quel punto la recessione sarà conclamata. L’ultima volta che si erano registrati due trimestri successivi in calo è stato a cavallo tra il 2012 e il 2013. Un clima così l’ultima volta si è misurato nel 2009, in piena crisi finanziaria globale. E ancora. Sono calati gli ordini industriali e anche la fiducia degli imprenditori risulta depressa. La settimana scorsa erano arrivati i dati sulla produzione industriale, che a giugno ha segnato un -1,5% rispetto al mese precedente, laddove la flessione anno su anno è addirittura del 5,2%, ossia il peggiore degli ultimi dieci anni. Un segnale che mette in allarme gli economisti, anche perché l’onda lunga della malattia tedesca facilmente si farà sentire in tutta l’Eurozona: «Se l’industria tedesca, come sembra, non uscirà dalla recessione, questa persistente debolezza potrebbe far soffrire anche le economie degli altri Paesi», ha spiegato Robert Lehmann, dell’autorevole istituto Ifo. Che sottolinea come questa nuova fragilità tedesca parta dal cuore stesso della sua industria, ossia il manufatturiero e il settore dell’automobile, e non riguarda solo il precipizio del diesel. In più, quel che mette ansia è la debolezza della domanda interna nei confronti degli stessi prodotti tedeschi. Pure nelle altre grandi capitali europee si guarda con preoccupazione a questa sostanziosa contrazione dell’economia della Repubblica federale: è un’incertezza che ha anche molto a vedere, come non manca di sottolineare sempre Handelsblatt, con la guerra commerciale tra Usa e Cina e ancor più ovviamente con la Brexit. Nessuno, neanche a Francoforte, si spinge a previsioni certe, ma la paura di quale possa essere l’impatto dell’onda lunga dello tsunami britannico è moneta corrente.

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Argentina, il rischio di un nuovo default

La fuga dalle attività argentine innescata dalla sconfitta del presidente Mauricio Macri nelle elezioni primarie dello scorso fine settimana ha fatto sì che la Borsa di Buenos Aires abbia perso in due sedute circa un terzo della sua capitalizzazione. Con una svalutazione del peso contro dollaro di circa il 30% nelle prime sedute della settimana. Adesso anche gli investitori esteri piangono. I fondi obbligazionari, fortemente esposti al debito argentino, che fanno capo a Michael Hasenstab, uno dei maggiori investitori globali, hanno perso, in un solo giorno, 1,8 miliardi di dollari. Lo riporta il Financial Times. Hasenstab, a capo del gruppo Franklin Templeton, con sede in California, è stato uno dei maggiori acquirenti del debito argentino e sei dei suoi fondi, con l’esposizione più significativa al Paese, hanno subito ingenti cali di valore nella disfatta di lunedì, secondo i calcoli del quotidiano finanziario. Le preoccupazioni per un possibile ritorno al dominio populista peronista dopo le elezioni presidenziali in programma a ottobre hanno fatto scendere il peso di oltre il 20% rispetto al dollaro e il rendimento delle obbligazioni a breve scadenza dell’Argentina è salito a livelli preoccupanti. Anche le probabilità di insolvenza nei prossimi cinque anni sono cresciute del 75%, secondo il Financial Times. Franklin Templeton non è stato l’unico gruppo a essere colpito dall’esposizione al debito argentino. Anche i fondi gestiti dal gruppo Ashmore di Londra e dal colosso degli investimenti Fidelity hanno subito perdite considerevoli. Nel 2002 Buenos Aires ha dichiarato default su 100 miliardi di dollari di obbligazioni sovrane, proponendo ai creditori il famoso concambio. In pratica un accordo di emergenza in cui lo Stato che ha dichiarato bancarotta si riprende le obbligazioni sostituendole con nuovi titoli con un controvalore più basso consentendo così al creditore di limitare le perdite. Chi accetta incassa il 30% del valore iniziale, chi rifiuta non recupera nulla. Tra il 2005 e il 2010, attraverso due accordi di questo genere, l’Argentina ha ottenuto il consenso del 93% dei creditori tagliando così buona parte delle sue pendenze debitorie.

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La rivolta di Hong Kong e le analogie con Tienanmen

L’ex colonia britannica di Hong Kong è un hub finanziario che svolge un ruolo importantissimo negli equilibri economici dell’Asia Orientale. Con una popolazione di appena 7,4 milioni di abitanti (contro i quasi 1,4 miliardi di abitanti della Cina) Hong Kong ha un Pil di circa 350 miliardi di dollari e un reddito pro-capite di oltre 46mila dollari (2017). Vale a dire quasi cinque volte il Pil pro-capite cinese che nel 2017 era pari a circa 9.900 dollari. La Borsa di Hong Kong è il quinto mercato azionario mondiale, con una capitalizzazione di poco inferiore a quella di Shanghai. Questi numeri danno un quadro della delicatezza e dell’importanza di Hong Kong come snodo politico e finanziario del sistema economico della Grande Cina. Dopo le proteste nate per evitare che i cittadini di Hong Kong possano in alcuni casi essere estradati e processati in Cina la sollevazione della ex colonia britannica sta assumendo le proporzioni di una sommossa. E le autorità cinesi hanno dichiarato «che si tratta della più grave crisi dal 1997 , quando ci fu il cosiddetto «handover» il passaggio dal protettorato britannico allo status di regione amministrativa speciale nella sfera di influenza di Pechino. Di fronte all’escalation la Cina sta ammassando truppe e carri armati alla frontiera con Hong Kong. Se la Cina dovesse intervenire militarmente si andrebbe incontro a una crisi internazionale potenzialmente altrettanto grave quanto quella seguita alla rivolta di Piazza Tienanmen nel 1989.

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Israele, Iran e il blocco dello stretto di Hormuz

Nel Golfo Persico cresce la tensione a causa del sequestro delle petroliere che transitano attraverso lo stretto di Hormuz da parte di Teheran. Ma lo scontro che contrappone gli Stati Uniti al regime degli Ayatollah potrebbe estendersi fino a coinvolgere Israele, dove molti esponenti del governo Netanyahu (adesso dimissionario) temono il rilancio dei piani nucleari di Teheran, dichiaratamente finalizzati a distruggere lo Stato ebraico. Netanyahu ha recentemente dichiarato che sono stati sventati oltre 600 attentati terroristici nel corso degli ultimi due anni. Se la situazione della sicurezza di Israele dovesse improvvisamente peggiorare non si può più escludere uno scontro diretto tra l’esercito (e soprattutto l’aviazione) di Gerusalemme e le forze armate di Teheran. A questo punto il rischio di un blocco dello stretto di Hormuz, attraverso cui transita un quinto della produzione mondiale di petrolio, circa 21 milioni di barili al giorno.

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Dazi, la madre di tutti i «cigni neri»

Ultimo tra i grandi rischi, il più noto e potenzialmente il più disastroso, è la guerra commerciale dichiarata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Cina. DA quando è iniziata la guerra commerciale tra i due colossi dell’economia mondiale i soli agricoltori statunitensi hanno perso ricavi per 17,3 miliardi di dollari dopo che Pechino ha colpito le esportazioni Usa di soia, mais e grano in seguito all’introduzione di dazi Usa sono saliti dal 10 al 25% su beni per un controvalore di 200 miliardi di dollari. Ma la guerra commerciale di Trump non si limita alla Cina e potrebbe estendersi a una serie di prodotti europei che vanno dalle auto ai vini, ai formaggi. Un momentaneo sollievo, subito raccolto dai mercati con una temporanea risalita dei listini azionari, è stato l’annnuncio di uno stop provvisorio fino al 15 dicembre dell’introduzione di nuovi dazi al 10% su importazioni cinesi per 300 miliardi.

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