La crisi, i partiti, i leader Gli interessi particolari

Ogni attore, insomma, sembra muoversi sulla scena animato dal proprio «particulare», dagli interessi neanche di partito ma di corrente o meglio ancora personali. Il tutto mentre l’Italia è più che mai il malato d’Europa: cresce meno degli altri, accumula più debito, paga di più per finanziarsi sui mercati, è politicamente instabile. Che idea può farsi il nostro diciottenne di un Paese così? Un Paese che non riesce a liberare le sue potenzialità straordinarie, che resta prigioniero dell’inverno, anzi dell’estate, del nostro scontento? Al di là delle minuscole vicende di clan, la partita che si gioca nei prossimi giorni si può così semplificare: Salvini contro il resto del mondo. Un’anomalia che per lui rappresenta un pericolo ma anche un’opportunità. Perché Salvini passerà l’estate di spiaggia in spiaggia a dire, anzi ritmare: «Loro sono politicanti; io sono uno di voi».

Ovviamente non è in questione il diritto di tutti, financo del ministro dell’Interno, a mettersi in libertà (magari in forme più consone al ruolo). Il punto è che il «format Papeete» è politica. Se un leader che si presenta come anti europeo e anti sistema nella strategia e nel linguaggio, che parla come il capo di un gruppetto estremista arrivando a definire «zecche» altri esseri umani, sale nei sondaggi sin quasi al 40%, la causa non è soltanto nel fallimento palese di una classe dirigente. È anche nel cambiamento degli italiani.

Non a caso Berlusconi ha chiamato il suo nuovo movimento «Altra Italia». Proprio lui, che ha sempre incarnato o preteso di incarnare «questa Italia», la presente e viva. Nei momenti più alti delle sue ambizioni – come il discorso del 25 aprile a Onna con il fazzoletto tricolore al collo –, semplicemente l’Italia. L’«altra Italia» è una formula da partito d’Azione. Un filone nobile, sia pure minoritario, destinato a degenerare in una cultura elitaria da cui la sinistra tranne rare eccezioni non è mai guarita, che distingueva un Paese ideale dall’«Italia alle vongole» in cui disgraziatamente toccava vivere.

Non è tanto Berlusconi – pur con l’inevitabile logorio e declino – a essere cambiato. È l’italiano che si era identificato in lui. E che ora vede il suo nuovo punto di riferimento in Salvini. Nel 1994 la maggioranza si riconosceva in Berlusconi, forse più di quanto non abbia mai fatto con qualsiasi leader Dc (il vero homo democristianus era semmai Alberto Sordi). Certo, il Cavaliere era incomparabilmente più ricco dell’italiano medio; ma ne condivideva le passioni, dal calcio alle donne; ed era l’uomo televisivo per eccellenza. Il suo linguaggio era facondo, anche troppo: ridondante di numeri, incontenibile in un tweet. Gli scrivevano discorsi in cui si citavano Von Hayek e i padri del liberalismo. Componeva un governo strampalato, ma in Europa mandava come commissari Emma Bonino e Mario Monti, allora rettore della Bocconi; Salvini ora vagheggia di mandare Centinaio, biker basettone sottratto dalla crisi al giro della Sardegna in moto.

In mezzo ci sono stati vent’anni di cultura trash di massa. C’è stata la rivoluzione della rete, con il suo linguaggio duro, violento, aggressivo. Berlusconi si è legittimamente chiesto a chi mai interessi vedere i filmati social di Salvini che mangia la Nutella; ma sono questi i nuovi meccanismi di identificazione. E funzionano. Così la prossima campagna elettorale, che durerà da qui alla data del voto, qualunque essa sia, sarà combattuta dalla Bestia contro Rousseau, le due macchine di propaganda online allestite dallo staff di Salvini e dalla Casaleggio&Associati; con un prevedibile sottoclou Zingaretti-Renzi tutto interno al Pd.

L’invito ad abbassare i toni sarebbe del tutto inutile. Così come lo sarebbe il richiamo a concentrare la discussione sulle proposte concrete (in campo finora se ne vede solo una, per quanto forse incostituzionale e certo incompatibile con i conti pubblici: la flat tax). Salvini non è semplicemente un Berlusconi che parla in modo più tagliente e fa promesse ancora più irrealizzabili. È un leader che propone nuove alleanze internazionali, i cui esperti economici sono dichiaratamente contrari alla moneta unica. Almeno su questo punto, un minimo di chiarezza si impone.

Perché almeno questo il diciottenne al primo voto ha il diritto di pretendere: un Paese ancorato al futuro. E quindi all’Europa. Un’Europa che vorrebbe diversa da quella attuale; e giustamente. Ma diversa nel senso di migliore. L’Europa della Hard Brexit di Boris Johnson e dei suprematismi nazionali di Marine Le Pen rischia di essere un posto peggiore. E questo i giovani italiani proprio non se lo meritano.

CORRIERE.IT

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