Salvini e il voto, la sabbia gettata negli occhi

Non potrebbe più dire, una volta a palazzo Chigi — sempre che i sondaggi oggi generosi si trasformino in voti reali — di non essere in grado di attuare questa o quella parte del programma per colpa degli alleati. Un po’ come ha fatto abilmente in questi quattordici mesi, facendo sopportare tutti i costi dell’immobilismo del governo Conte ai suoi sciagurati compagni di strada, i Cinque Stelle. Come se quel «contratto del governo del cambiamento» non avesse anche la sua firma. E nell’ipotesi che l’esecutivo a sua guida, come prima e più urgente incombenza, debba scrivere una legge di Bilancio per il 2020, non potrebbe giustificare incertezze e ripensamenti sostenendo di non conoscere (come hanno fatto tanti governi al debutto) lo stato reale delle finanze pubbliche. Salvini ha condiviso, pur essendo stato molto nelle piazze e nelle spiagge e poco al Viminale, tutte le scelte dell’esecutivo Conte. Ne porta la piena responsabilità politica.

Immaginiamo poi che la campagna elettorale sia tutta all’insegna della richiesta di un forte mandato popolare per scardinare la «gabbia ingiusta e austera» dell’Unione europea. Ma forse qualcuno gli ricorderà che la testa nei confronti degli «odiosi burocrati di Bruxelles» l’ha già abbassata due volte. In occasione della retromarcia sulla legge di Bilancio del 2019 e nel sottoscrivere gli impegni che hanno scongiurato una procedura d’infrazione per il debito. Lui potrebbe ribattere: sì ma non ero io il capo del governo e la Lega aveva un peso inferiore alla Camera e al Senato. Piccolo particolare: l’Italia si è impegnata, in quella occasione, a contenere il disavanzo strutturale anche nel 2020. E anche in questo caso c’era la sua firma politica. Era comunque in gioco la sua credibilità. E il futuro premier si accorgerebbe sulla sua pelle che cosa vuol dire per un Paese indebitato come il nostro venir meno a obbligazioni sottoscritte. È già accaduto altre volte. Non potrebbe prendersela con i «numerini» della Commissione, anche perché il copyright dell’espressione è del suo ex alleato vicepremier Di Maio. Ed essendo un buon padre di famiglia, con la testa sulle spalle, siamo certi non si affiderebbe ai tanti «dottorini Stranamore» che vagheggiano uscite dall’euro e monete parallele. Dunque, nel porre fine a un «governo di separati in casa con divisioni e odii individuali», come ha scritto ieri nel suo editoriale il direttore Luciano Fontana, Salvini ha bruciato alle sue spalle tutti i comodi ponti dell’ambiguità dei ruoli. D’ora in poi non ci sono più alibi. Non ci sono più scuse. Non se la può prendere più con nessuno. Se non con se stesso.

In ogni caso, si voti o no, rimangono le illusioni, tante, troppe, che rischiano di trascinare in un baratro, non solo economico, un intero Paese. L’illusione che facendo più deficit, anzi «sano deficit» come dicono i leghisti, si possa ridurre il rapporto fra il debito (di cui nessuno parla più, argomento rimosso) e il prodotto interno lordo, desolatamente fermo. Non è mai successo. O che si possa combattere l’evasione fiscale (vera gramigna italiana, battaglia accantonata) insistendo con sconti e condoni. Oppure parlando di flat tax quando è chiaro a tutti che, allo stato dei nostri conti pubblici, è un’utopia ingannevole. E ancora, l’illusione che mandando in pensione le persone prima, i posti di lavoro vengano occupati tutti da giovani che peraltro continuano ad andarsene. Sarà poi curioso capire, in una eventuale campagna elettorale, specialmente al Sud, se Salvini annuncerà la cancellazione, una volta al governo, del reddito di cittadinanza. E come spiegherà, da quelle parti, l’autonomia differenziata chiesta a gran voce dai suoi governatori del Nord. La rappresentazione di comodo della realtà economica — considerando i mercati una sorta di bisca affollata di speculatori senza scrupoli — è il carburante del sovranismo, il moltiplicatore del consenso. Ma è anche fumo, o meglio sabbia, negli occhi dei cittadini, ai quali il conto prima o poi arriva. E lo pagano i più deboli.

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