Primo Levi non è stato solo un testimone ma uno dei più grandi scrittori del Novecento

vedi anche:

VARCHETTA-PRIMO_LEVI001_WEB

Primo Levi: la chimica, l’Olocausto e la letteratura

Le tappe della vita del gigantesco scrittore di cui ricorre il centenario della nascita

Belpoliti
Già negli anni Novanta c’era un gruppo di scrittori e poeti – ne cito alcuni: Antonella Anedda, Eraldo Affinati, Stefano Bartezzaghi, Domenico Starnone, Massimo Raffaeli, Dario Voltolini, di sinistra, antifascisti nati negli anni Cinquanta e Sessanta – che avevano capito quanto Levi fosse uno scrittore e non solo un testimone, e quanto la letteratura italiana e quella mondiale gli siano debitrici, non perché parlasse della Shoah, termine che per altro non usa nei suoi testi, ma per come scrivesse del mondo. Levi è uno scrittore contemporaneo, da un lato ottocentesco, classico, dall’altro straordinariamente postmoderno. Per postmoderno intendo la citazione, il riuso dei testi, l’ironia, la parodia. Lui parodiava i testi che citava.

Goldkorn
Un esempio?

Belpoliti
Il centauro. La figura metà uomo metà cavallo della mitologia greca, spesso utilizzata da altri, nei romanzi di fantasia, di invenzione, di intrattenimento, gli dedica un racconto, “Quaestio de centauris”, molto importante. Anche Levi lo usa, ma per parlare della condizione esistenziale dell’uomo dopo Auschwitz, della sua dualità.

Goldkorn
La necessità di raccontare è comune a tutti i superstiti e i sopravvissuti. Ma, nel caso della Shoah, si trattava di cose inenarrabili e inimmaginabili, eppure accadute. E non esisteva un canone letterario di questa materia. Molti testi, prodotti quindi subito dopo l’Olocausto sono stati scritti usando iperboli, frasi fatte, citazioni di letteratura dell’orrore, oppure in un idioma militante, socialista degli anni Trenta. Levi invece intuisce che di fronte a tutto quello che gli è accaduto, lui, da scrittore vero, deve creare una mitologia. Quello che racconta è accaduto, ma necessita di una mitologia come sulla crudeltà del destino, sull’importanza della fortuna e dell’astuzia. “Se questo è un uomo”, il suo capolavoro, è un libro non solo su Auschwitz, ma è un magnifico testo sulla catastrofe degli umani, sapendo che la catastrofe non è una parentesi nella storia e nelle biografie, ma svela tutte le contraddizioni della condizione umana. Belpoliti Infatti, il libro si intitola “Se questo è un uomo” e non “Se questo è un ebreo”, perché per Levi è chiarissimo il fatto che l’opera dei nazisti consisteva nel tentativo di cambiare, attraverso il sistema dei Lager, la natura umana. I nazisti, Levi lo capisce, non vogliono solo ammazzare tutti gli ebrei del mondo, ma intendono mutare i dati antropologici dell’universo umano. Il capitolo “I sommersi e i salvati” in “Se questo è un uomo”, è un testo di una grande profondità filosofica. Ed è un capitolo in cui l’autore parla di un “esperimento biologico e sociale”. Sembra anticipare le opere di Michel Foucault sulla biopolitica. Levi aveva un suo côté positivistico darwiniano. E così interpretava il Lager come un tentativo di trasformare il genere umano. La portata radicale dell’esperimento nazista poteva intuirla solo un uomo formatosi come scienziato e scrittore in potenza.

Goldkorn
Possiamo pensare che non sia stato Auschwitz a trasformare Levi in uno scrittore, ma al contrario Levi ha potuto raccontare il Lager perché aveva le capacità di osservazione di un letterato?

Belpoliti
Su questo non c’è dubbio. Noi non sappiamo che genere di scrittore sarebbe diventato senza l’esperienza di Auschwitz. Però qualcosa si vede in “Il sistema periodico” o nei racconti di fantascienza, o fantabiologia, come li chiamava Italo Calvino, scritti con lo pseudonimo Damiano Malabaila.

Goldkorn
Uno scrittore di fantasia, dotato di un’immaginazione fuori dal comune.

Belpoliti
Levi era attentissimo ai dettagli. Ne cito uno. La questione di Mahorka, il tabacco dozzinale che ad Auschwitz serviva da moneta di scambio tra i deportati e con il cantiere della Buna. Con tutto quello che succedeva nel Lager, tre pagine per parlare delle quotazioni in una specie di Borsa nera, di Mahorka? Ma non è strano, Levi lavora con il dettaglio per parlare del mondo. Tiene sempre i piedi per terra, ma è molto fantasioso.

Goldkorn
In “Se questo è un uomo” c’è una scena di impiccagione. Simili scene le raccontano quasi tutti i testimoni. Elie Wiesel, narrando una storia analoga, si chiede dove sia finito Dio: risponde sul patibolo. Levi dice che chi ha assistito a questa scena e ha dovuto chinare la testa senza reagire non è più un uomo. Capisce che il nichilismo è diventata realtà. Non c’è speranza nel racconto. Dio non gli interessa.

Belpoliti
È un uomo che non crede in Dio, lo ha detto in più di una intervista, è un torinese di cultura illuministica e positivista, ed è socialista. Un borghese che vive del proprio lavoro. È pure antifascista e anche un ebreo, ma laico. Un fenomeno unico, nel panorama italiano.

Goldkorn
Un chimico torinese, ebreo integratissimo. In nessun paese del mondo gli ebrei erano integrati come nell’Italia post unità nazionale, e vede nel Lager un universo che non conosceva, di ebrei dell’Est. Gente che parla lo yiddish, che porta nel corpo la memoria dei pogrom. Levi osserva il mondo di Auschwitz come un entomologo. Ne fa parte, perché è prigioniero e vittima. Ma mantiene distanza. È quella distanza che gli permette di capire il Lager?

Belpoliti
Levi sembra un antropologo venuto da un altro pianeta su una terra incognita. In questa terra ci sono due entità: i carnefici e le vittime. Vede che cos’hanno in comune le vittime e i boia: l’umanità. Alla fine de “I sommersi e i salvati”, dice: io di mostri non ne ho visti tanti, suggerisce che le SS fossero persone educate male, nelle scuole dove si insegnava ubbidienza e non pensiero critico. Levi era diventato scrittore perché gli interessava capire come cambiavano le cose. Per questo era capace di raccontare la bestialità e l’asservimento dei kapo, non come fatto morale ma come dato antropologico. Sapeva cosa era l’uomo. E poi era un chimico. Aveva fiuto. Alla lettera. All’epoca non c’erano macchinari per fare il mestiere di chimico: il chimico, per sapere le cose, doveva avere un buon naso. Lui ce l’aveva.

Goldkorn
Di “Se questo è un uomo” ci sono due versioni. La prima, del 1947, dopo la poesia, comincia con la descrizione della situazione degli ebrei italiani a Fossoli nel 1944. La seconda, canonica, del 1958 inizia invece (sempre dopo la poesia) con le parole: “Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza…”. Il primo incipit non è bello né accattivante; il secondo allude all’epica classica e pone l’eroe, il narratore, al centro.

Belpoliti
Dal 1947 e fino a metà degli anni Cinquanta Levi raffina le strategie di narrazione. Un esempio. Nella prima versione, Alberto (Alberto dalla Volta, compagno di prigionia di Levi, ndr) è solo una delle persone citate, mentre nella seconda viene raccontato come il miglior amico, al centro della storia nei punti salienti. La spiegazione è semplice: Levi aveva nel frattempo cominciato a scrivere racconti. E ha progettato il secondo romanzo “La tregua”. Ha lavorato sulla qualità della scrittura di “Se questo è un uomo”, sulla struttura e sull’architettura di quel testo perché aveva deciso di essere scrittore appunto. Faccio un altro esempio. Il capitolo di “Se questo è un uomo” dove parla dei traffici dei manici di scopa, nel capitolo “L’ultimo”. Quelle pagine seguono la scena di impiccagione di cui abbiamo parlato prima. Abbiamo detto che in quella scena non c’è trascendenza né speranza, solo la morte e il Nulla. E allora perché dopo quella narrazione Levi decide di raccontare episodi che riguardano i traffici delle povere merci nel Lager? Per rimettere la persona umana, che traffica, e quindi si occupa della vita e del futuro, al centro. Per parlare della vita e non più dell’annientamento. È un procedimento da grande scrittore, non da testimone che racconta gli eventi in ordine cronologico.

Goldkorn
Forse la scena più bella e che meglio dà l’idea dell’uomo al centro dell’universo, anche nel Lager, è il racconto dove il narratore, mentre vanno a prendere la zuppa, recita al compagno di detenzione, Pikolo, Il canto di Ulisse di Dante. Levi fa vedere le stelle, il mare, fa respirare l’aria di libertà. Possiamo ipotizzare che almeno in parte quella scena è immaginata?

Belpoliti
Jean Samuel, il Pikolo, non si ricordava di quell’episodio, ha detto dopo la morte di Primo. Probabilmente Levi ha parlato a Samuel di Dante, ma forse non in termini in cui lo ha scritto. Ma la storia è talmente bella che va approfondita. Levi dunque voleva citare Dante, perché era il suo punto di riferimento costante, era l’uomo in esilio, l’uomo che fugge, l’uomo libero. E poi c’è Ulisse, l’uomo che sfida gli déi. Tutto quello che ha scritto Levi è ancorato nella tradizione della letteratura italiana, in ogni riga c’è l’eco di un autore che lui ha frequentato, e credo che con il Canto di Ulisse volesse parlare pure della bellezza della lingua italiana. Aggiungo: la letteratura è un luogo della libertà, questo ci dice Levi. Ma se è così, la letteratura produce la realtà. Nella letteratura il racconto del reale, trasfigurato dallo scrittore, è più reale del reale.

Goldkorn
Levi è Ulisse. È astuto, fedele alla sua biografia, determinato a tornare a casa. Ha la sua Itaca in Corso Umberto a Torino. “La tregua”, in cui narra il vagabondare da Auschwitz a Torino, è la storia di Ulisse dopo Auschwitz. E in quel romanzo si manifesta il Levi creatore di una mitologia. È curioso quanto non racconti di Katowice, città dove soggiornò per più di tre mesi nel campo profughi, perché è un luogo che si presta poco a una narrazione epica e quanto invece assume toni quasi atemporali parlando della Russia. Vi incontra uomini e donne vestiti di pelli d’animale. Vede boschi dove ci si perde come Hänsel e Gretel nella favola dei fratelli Grimm.

Belpoliti
Un libro riscritto due volte. Nel dattiloscritto che ho esaminato, ho trovato che aveva pensato di iniziare la storia con il Greco, suo compagno di viaggio. E poi ha riscritto anche il capitolo che si intitola così. Ha cassato un inizio meno letterario. Ha deciso di cominciare con due capitoli che appartenevano alla realtà di Auschwitz, là dove parla della salvezza e l’altro dedicato ai bambini e dove c’è l’episodio di Hurbinek. Li aveva già scritti all’epoca di “Se questo è un uomo”. Non butta nulla e poi ha pensato quel secondo libro come continuazione del primo, anche se letterariamente non lo è. Pensa da scrittore. Ha anche calcolato la lunghezza dei due libri contando le parole e le lunghezze dei capitoli: sono lunghi uguali. Ragiona come un chimico e tiene conto dei lettori.

Goldkorn
Un raccontatore di storie mentre il linguaggio è autonomo rispetto all’autore. La capacità di farlo trasforma un narratore in un grande scrittore.

Belpoliti
Per questo, considerare Levi uno scrittore significa porre di nuovo la questione del testimone. Ora la grande sfida è prendere la figura dello scrittore, liberata dal ruolo del testimone, e reinserirla nel discorso della testimonianza. Un compito non facile, ma decisivo per la testimonianza e per il nostro futuro di memoria viva. Ci serve la letteratura. La letteratura potenzia lo sguardo e lo rende acuto. Levi nel 1947 non usò il linguaggio neorealista allora di moda, ma il linguaggio classico della borghesia. Forse per questo Einaudi si rifiutò di pubblicarlo. Per capire cosa sia accaduto ad Auschwitz ci vuole la letteratura, perché solo la letteratura ci permette di comprendere cose che i realisti non riescono a immaginare. Levi prova che Auschwitz può essere narrata, però lo può fare uno scrittore, un artista, un musicista. La letteratura è il prosaico portato al sublime.

Goldkorn
Abbiamo parlato di Levi narratore di Auschwitz, non perché gli altri libri siano meno importanti (“La chiave a stella” è un capolavoro), ma per sottolineare quanto ha appena detto: solo la letteratura può dare senso all’inenarrabile. Perché Levi diceva di non sentirsi del tutto scrittore?

Belpoliti
Un po’ perché era rimasto traumatizzato dal rifiuto di Einaudi. Ma soprattutto perché da antifascista temeva che, presentandosi solo come scrittore, la forza della sua testimonianza potesse essere messa in dubbio. Era un problema politico e culturale, e lo sentiva molto, perché, ricordiamolo, nessuno, subito dopo la guerra, voleva ascoltare quanto era accaduto nei Lager. Gli scrittori inventano. Levi non inventava, costruiva la memoria sotto forma di una prosa sublime. 

L’ESPRESSO

Rating 3.00 out of 5

Pages: 1 2


No Comments so far.

Leave a Reply

Marquee Powered By Know How Media.